Ora i pm di Firenze vogliono anche processare Ilda Boccassini, l’ex dirigente del pool “antimafia” di Milano e pubblico ministero a Caltanissetta per le indagini sulla morte di Giovanni Falcone a partire dal 1992. È la coda velenosa dell’attività investigativa dei due ex aggiunti alla Procura fiorentina Luca Tescaroli (oggi procuratore a Prato) e Luca Turco ( ora a Livorno) che, in un fascicolo laterale a quello principale sulle stragi del 1993 e del 1994, procedono nei confronti della magistrata ormai in pensione per il reato di false informazioni al pubblico ministero.

È una storia antica e un po’ farlocca, come tutti i filoni d’inchiesta che, nel corso degli anni, hanno portato a quattro archiviazioni ( e si attende la quinta) sulle indagini che vogliono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri mandanti delle stragi. Il movente? Far vincere nel 1994 le elezioni a Forza Italia a suon di bombe. Davvero difficile sostenere questa tesi, che pure muore e rinasce come l’araba fenice, con il filo conduttore che va da Caltanissetta a Firenze senza soluzione di continuità.

Non passando per Palermo, la città e il tribunale nei quali è stata archiviata definitivamente un’altra ipotesi fantascientifica, quella sulla “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Sempre negli anni Novanta. Come questa che vede coinvolta suo malgrado Ilda Boccassini. L’unica che capì per tempo, al contrario dei suoi colleghi, l’inattendibilità del finto pentito Enzo Scarantino, nelle indagini sulla morte del giudice Paolo Borsellino.

Questa storia nasce nel 1994, quando Boccassini era pubblico ministero a Caltanissetta e aveva ascoltato la deposizione di un “pentito” di Cosa nostra, Salvatore Cancemi, il quale riportava una presunta confidenza del suo capo Totò Riina. Secondo quest’ultimo, Cosa nostra avrebbe ricevuto 200 milioni di lire all’anno dall’imprenditore Silvio Berlusconi, a tutela delle proprie antenne tv in Sicilia. Neanche a dirlo, l’intermediario sarebbe stato Marcello Dell’Utri. Però, proprio nel processo per concorso esterno in cui è stato condannato l’ex dirigente di Publitalia, la Cassazione ha già bollato quelle dichiarazioni di Cancemi come «complessivamente prive di un’autonoma significatività probatoria».

Ma nel 1994 la pm Boccassini aveva incaricato il famoso Sergio De Caprio, detto capitan Ultimo, di svolgere indagini. Che si indirizzavano in particolare nella ricerca di un altro mafioso, Pierino Di Napoli, che, secondo le parole del “pentito”, che comunque parlava sempre “de relato”, sarebbe stato un tramite per il versamento di quei soldi. Fu a quel punto che, in due articoli del 20 e 21 marzo, a una settimana dalle elezioni, i giornalisti di Repubblica Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni pubblicarono i verbali della deposizione di Cancemi.

Il che non impedì a Silvio Berlusconi di vincere le elezioni del 27 marzo 1994 e in seguito di insediarsi a Palazzo Chigi. Non senza aver portato Forza Italia al 30 per cento alle successive elezioni europee. A dimostrazione del fatto che gli elettori non avevano creduto a una parola di quelle dichiarazioni. Ma l’indagine di Boccassini e Di Caprio morì il giorno dello scoop di Repubblica.

La Procura di Firenze, che sembra aver scelto di attendere sempre notizie dall’esterno e di non chiudere, così. mai le indagini sui mandanti delle stragi, su Dell’Utri e anche su Berlusconi che non c’è più, ha improvvisamente rialzato la testa quando nel 2021 è uscito il libro autobiografico di Ilda Boccassini, “La stanza numero 30”. Otto pagine l’ex pm ormai in pensione le dedicava proprio a quell’episodio, e al rincrescimento perché quel mafioso ricercato da capitan Ultimo era sparito dopo l’uscita degli articoli. E raccontava che Giuseppe D’Avanzo, morto nel 2011, giusto pochi giorni prima della fine improvvisa, le aveva rivelato il nome della propria fonte, che gli aveva telefonato di notte e gli aveva fatto leggere i verbali di Cancemi.

Quel nome, Ilda Boccassini, sentita a sommarie informazioni subito dopo l’uscita del libro dai pm fiorentini, non l’ha voluto fare. Perché D’Avanzo era suo amico e vuol dunque preservarne la memoria. Così, dall’avviso di chiusura indagini di quel filone minore dell’inchiesta sulle stragi, l’ex magistrato milanese ha appreso di essere indagata per false (in realtà reticenti) dichiarazioni al pubblico ministero, aggravate dalla tipologia dell’inchiesta di mafia in cui sono “inserite”. Ora ci sono venti giorni di tempo perché l’indagata esponga le proprie ragioni. Si deciderà a parlare e rivelare il nome o rimarrà chiusa nel suo silenzio? Per dirla con un linguaggio da magistrati: si difenderà “nel” processo o “dal” processo?