La repressione da sola non basta, ciò che conta, con i minori, è prevenire. A dirlo è Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania, secondo cui «occorre far comprendere a tutti che il trattamento penitenziario non è una vacanza, ma un diritto che comporta sacrifici per coloro i quali vi partecipano». E su quanto accaduto all’istituto per minori “Beccaria”, il magistrato ha le idee chiare: degenerazioni come quella, spiega, «non sono frutto del caso, ma conseguenze prodotte da un insieme di scelte sbagliate che stanno piuttosto a monte».

Le recenti scelte del governo in merito alla giustizia minorile sono orientate verso una logica punitiva: il dl Caivano ne è una prova, ma anche il dl Rave va a colpire una fascia sociale composta prevalentemente da giovani. La risposta repressiva secondo lei funziona con i minori?

La repressione è soltanto un aspetto del problema e serve a contrastare i comportamenti devianti in atto. È chiaro che lo Stato deve operare in primo luogo con la prevenzione, che consiste anche nel creare le condizioni per superare il disagio da cui prendono forma i reati che si vogliono evitare. Con i ragazzi, specie quelli che hanno delle personalità in via di formazione, questo percorso può dare dei risultati. Quali sono le strategie da adottare nel contesto della giustizia minorile? Che fine fa il fine rieducativo della pena?

Nel trattamento dei minori spesso si tratta di porre le basi di una giusta educazione, prima ancora che operare una vera e propria rieducazione. E per questa ragione l’ordinamento da tempo consente delle forme di messa alla prova e di perdono giudiziale. In questo modo si può rimettere sulla strada giusta chi ha sbagliato, evitando il percorso della “punizione” con il suo carico di conseguenze anche psicologiche.

Come si risolve la piaga dei giovanissimi che commettono reati?

Come in tutte le cose occorre distinguere. A differenza degli adulti per i quali il percorso reinserimento è a volte più difficile, i minori potrebbero essere quasi tutti recuperati se lo Stato riuscisse ad arrivare in tempo, ossia prima che la scelta di delinquere si trasformi in una via senza ritorno, prima che nella dimensione del delitto si formi l’idea di potere raggiungere il successo e di avviare una carriera criminale.

C’è chi ha proposto di abbassare l’età imputabile. Cosa ne pensa?

La questione si è posta a proposito dei giovanissimi appartenenti alle associazioni di tipo mafioso. Vi fu un caso anni fa di un infraquattordicenne armato dal padre per commettere un omicidio prima nel raggiungimento dell’età imputabile. È una questione di punti di vista: abbassare l'età imputabile potrebbe significare ricercare un deterrente a tutela della società, ma dal punto di vista della esperienza di vita un 14enne rimane un bambino.

Le vicende del Beccaria rappresentano l’esempio massimo delle storture del sistema. Come si spiega fenomeni del genere?

Sono fatti inqualificabili e meritevoli di una adeguata ed esemplare punizione. Tuttavia non sono frutto del caso, ma conseguenze prodotte da un insieme di scelte sbagliate che stanno piuttosto a monte. La riforma, fatta anni fa, del Dipartimento giudizio minorile, rispetto alla quale sono state previste nuove competenze ma non un efficace riassetto organico che prevedesse il turnover ed una formazione adeguata del personale rispetto alla eterogeneità dei nuovi e diversi compiti. E dunque adesso il Dipartimento non è evidentemente in grado di disporre di una quantità di personale che consenta un adeguato ricambio del personale più esperto che vai in pensione; né è in grado di assicurare periodi adeguati di affiancamento e di formazione ai nuovi assunti. Peraltro l’approccio di trattamento penitenziario con i ragazzi presuppone un surplus di pazienza e di dedizione. Se da un lato si tratta pur sempre di giovani, e dunque di personalità non strutturate su cui è possibile incidere con maggiori possibilità di successo, dall’altro le intemperanze tipiche dell’età immatura e lo spirito di contestazione che ne consegue meritano un approccio di esperienza.

È adeguata la formazione di chi lavora in posti così duri?

Nel caso concreto - per le ragioni indicate - non lo poteva essere affatto: degli agenti ragazzini senza formazione si sono trovati di fronte alle intemperanze di detenuti di poco più giovani di loro. Non c’è bisogno neanche di spiegare cosa possa essere successo… Conforta la presa di posizione del capo dipartimento Antonio Sangermano, che per primo ha stigmatizzato l’accaduto denunciandone la gravità.

Come prevenire deviazioni come questa?

C’è una intera legge di 90 articoli, l’ordinamento penitenziario, che se applicata correttamente serve a trovare un punto di equilibrio tra sicurezza, rieducazione e rispetto delle persone. Per fare si che la legge non rimanga una regola vuota come le grida manzoniane, occorre che lo Stato prenda in mano la situazione; che con autorevolezza e con competenza sia in grado di garantire condizioni civili di detenzione, ma al tempo stesso di pretendere il rispetto delle regole. Occorre far comprendere a tutti che il trattamento penitenziario non è una vacanza, ma un diritto che comporta sacrifici per coloro i quali vi partecipano. Sacrifici dai quali dipende il cambiamento di un’esistenza e la possibilità di ottenere meritatamente l’uscita anticipata dal carcere. La repressione cieca e la sindacalizzazione dei benefici - ossia la pretesa di assicurare sconti di pena anche a chi rifiuta le regole dello Stato - sono atteggiamenti opposti e sbagliati che convivono nella dimensione di un carcere incivile e fuori controllo.