È una mossa semplice e politicamente chiara: con un atto condiviso dalla propria intera rappresentanza in commissione Giustizia, il Pd ha depositato giovedì a Montecitorio una proposta di legge sull’avvocato in Costituzione. «Basta dire due cose», spiega il responsabile Giustizia dem Walter Verini, «primo, che su una simile riforma il nostro partito si è speso fin da quando il Cnf ne ha segnalato l’opportunità, al congresso forense di Catania in particolare. L’altro aspetto è che nonostante la nostra convinta adesione al progetto, non avevamo mai compiuto prima un atto concreto, e ci è sembrato a maggior ragione giusto farlo ora che la riforma è stata inserita a pieno titolo nell’Agenda 2023».

Chiaro, appunto. Come è altrettanto evidente che la scelta potrebbe essere tutt’altro che priva di conseguenze seppure una proposta di legge costituzionale sul ruolo dell’avvocato sia già incardinata al Senato, in commissione Affari costituzionali. Il testo di Palazzo Madama infatti vanta un singolare primato: si tratta del provvedimento che, in materia di giustizia, ha fatto registrare la condivisione politica più ampia e incondizionata, ma nello stesso tempo rischia di tagliare il traguardo di un anno solare trascorso senza che se ne sia avviato l’esame. Una dissonanza fra propositi e passi formali che è divenuta tanto più stridente nelle ultime settimane. Dopo, cioè, che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, primo “motore politico” della modifica costituzionale, ha ribadito, nelle sue relazioni alle Camere sull’amministrazione della Giustizia, il proprio «favore» per il provvedimento. Dopo, ancora, che tale condivisione è stata espressa non solo dal capogruppo dei 5 Stelle in commissione Giustizia a Montecitorio Devis Dori ma anche dalle delegazioni di tutti gli altri partiti rappresentati in Parlamento, nelle occasioni in cui il presidente del Cnf Andrea Mascherin le incontrate recentemente. Fino all’altra circostanza delle ultime ore che rende ancora più bizzarro lo stridore fra convergenza politica e inerzia parlamentare, cioè proprio quella decisione unanime assunta lunedì a Palazzo Chigi dal Tavolo sulla giustizia che ha visto riunite tutte le forze di maggioranza: Movimento 5 Stelle, Pd, Italia viva e Leu. «E posso confermare che quella compattezza si è registrata eccome», prosegue Verini. «Si può parlare di unanimità: alla riunione con il presidente del Consiglio tutti e quattro i partiti si sono schierati per dare priorità al provvedimento, dopo che il guardasigilli Bonafede l’ha indicatop fra i punti a suo giudizio da concretizzare immediatamente in Parlamento». Verini aggiunge due cose: innanzitutto «il testo è essenziale: diciamo che esiste un paradigma, su come sancire l’irrinunciabilità, l’autonomia e l’indipendenza dell’avvocato, quello del Consiglio nazionale forense, mentre la formulazione da noi scelta è appena più breve, ma contiene comunque tutte le sfumature del principio che si vuole affermare, ossia l’imprescindibilità del difensore e la necessaria condizione di libertà e indipendenza in cui deve poter esercitare il proprio ruolo». L’altro aspetto rilevante, continua Verini, «è che appunto la proposta di legge reca la mia come prima firma, in quanto responsabile di dipartimento nel Pd, ma anche quelle di tutti gli altri nostri rappresentanti nella commissione Giustizia alla Camera, ossia Bazoli, Bordo, Miceli, Soverini, Vazio, Zan e, aspetto credo significativo, anche quella del vicesegretario Orlando». È un modo per rafforzare il senso di una piena convinzione politica sulla riforma costituzionale dell’avvocato. «Orlando», ricorda Verini, «negli stessi giorni in cui avevo incontrato personalmente Mascherin e gli avevo ribadito il sostegno al progetto, lo aveva espresso in un’intervista proprio al vostro giornale».

Una coerenza che coincide con lo spirito costruttivo a cui il Pd si ispira nel compiere questa mossa: «Noi intendiamo dare il nostro contributo per l’approvazione, con il nostro testo alla Camera. Ma riteniamo anche che, vista l’unanimità al Tavolo sulla giustizia, il consolidato impegno del governo, non c’è motivo per cui ora la riforma non debba accelerare al Senato».

E a Palazzo Madama c’è una condizione formale ulteriormente favorevole all’avvio immediato dell’esame in commissione: la doppia firma in calce al testo depositato un anno fa. Se infatti la prima è di Stefano Patuanelli, all’epoca capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato e oggi ministro dello Sviluppo economico, il cofirmatario è il presidente dei senatori leghisti Massimiliano Romeo. Certo, una simile condivisione risale a quando l’impulso di Bonafede agì su una maggioranza di cui il Carroccio era ancora parte. Ma il fatto è che proprio due settimane fa la delegazione della Lega nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, con in testa il presidente Andrea Ostellari, ha rinnovato a Mascherin il sostegno sulla riforma. Il suggello di Romeo, dunque, non è anacronistico. Attesta come sull’avvocato in Costituzione la convergenza sia trasversale. E come rappresenti davvero uno dei rari esempi, nell’ambito della giustizia, di unanimità fra maggioranza e opposizione.