A FARNE LE SPESE SARÀ SOPRATTUTTO IL PD

Itentativi proseguiranno sino all'ultimo secondo: trafelati, spauriti, affidati all'inesauribile fantasia della politica italiana. Sempre che non intervengano fatti nuovi, come il ritiro della delegazione 5S al governo, a spegnere in anticipo le soverchie illusioni. In concreto cambierebbe ben poco: una fine già nota verrebbe anticipata di pochi giorni. Ma l'esito è già scritto.

Draghi non ritirerà le dimissioni, non si farà convincere dalle pressioni dei partiti, peraltro per nulla certe se non per quanto riguarda il Pd. Non aspetterà un voto finale che a questo punto sarebbe del tutto inutile. Probabilmente non permetterà neppure ai partiti di interloquire, come invece sembrava deciso a fare giovedì pomeriggio. Salvo ripensamenti, si limiterà a comunicare la sua irrevocabile decisione e a spiegarla. Poi lascerà l'aula per consegnare al presidente le sue irrevocabili dimissioni. Mattarella intende respingerle. Non per fermare Draghi ma per consentire al governo di restare nel pieno dei propri poteri fino all'ultimo, mossa indispensabile perché le emergenze da fronteggiare sono tali da non permettere un lungo vuoto di potere.

Draghi è d'accordo ma anche da questo punto di vista bisognerà vedere se la dinamica interna alla maggioranza lo permetterà. In caso di incidenti, Mattarella sarebbe costretto a sostituire il governo con un esecutivo che a quel punto si occuperebbe solo dell'ordinaria amministrazione e della gestione della campagna elettorale. Poi, entro la prima decina di ottobre si voterà con questa legge. Le trattative per la riforma elettorale erano in realtà molto avanzate, ma la crisi improvvisa stronca ogni possibilità di modificare una legge elettorale che proprio in questa surreale legislatura ha mostrato tutti i propri limiti.

Dunque le coalizioni saranno non un'opzione ma, di nuovo, un obbligo. Almeno prima del voto perché, come si è visto in questi cinque anni, nulla obbliga i partiti che si presentano alleati agli elettori a restare tali anche dopo il voto. Si sa che è proprio questo l'elemento sul quale puntano i moltissimo che auspicano di tornare dopo il voto a una situazione identica a quella di prima, certo senza più i 5S in maggioranza, tagliando cioè fuori le famose “ali”: FdI a destra, il M5S a sinistra. Sino a pochi giorni fa non era un progetto irrealistico, date le fortissime tensioni e la competitività all'interno di una destra che non è mai riuscita a diventare coalizione. La deflagrazione degli ultimi giorni preclude probabilmente anche quella strada. Il solo cemento possibile sarebbe stato infatti Mario Draghi e la necessità di non interrompere l'opera del suo governo. Ma per immaginare ora un possibile ritorno in campo e a palazzo Chigi dell'ex presidente della Bce ci vogliono oggi molta fantasia e una dose anche maggiore di ottimismo.

Dunque si scontreranno partiti che, almeno in partenza, mirano tutti davvero a governare in prima persona e questo, nel quadro che si è determinato, è per Letta e per il Pd un problema enorme.

Con il Rosatellum affrontare la quota di collegi maggioritari da soli, ma anche eventualmente in coalizione con i soli Renzi e Caldenda, significa per il partito di Letta eporsi a una prevedibile, anzi prevista, durissima sconfitta.

Salvare l'alleanza con il Movimento che ha provocato la crisi non sembra però possibile nei tempi brevi e, data la determinazione di Draghi, a disposizione ci sono ora solo quelli. Letta, se anche intendesse provarci, perderebbe certamente ogni possibilità di alleanza anche con i centristi e si esporrebbe a una guerra interna senza quartiere con una minoranza che già detestava l'ipotesi di asse con i 5S. Non è neppure detto che i 5S sarebbero ancora disponibili. Nello strappo di Conte ma molto più dei suoi parlamentari, è infatti evidente la tentazione di tornare alla purezza delle origini e dunque all'isolamento.

Letta è passato così nel giro di appena 24 ore da una postazione vincente a una situazione difficilissima.

Dovrà affrontarla nel corso di un agosto che per il Pd sarà lunghissimo.