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GIUDICI DI CASSAZIONE
Nel 2011, certo, in Italia si è votato per l’acqua come bene comune. Un referendum abrogativo, il solo che abbia raggiunto il quorum negli ultimi trent’anni. Ma il voto sulla separazione delle carriere sarà un’altra cosa. Sarà uno scontro di civiltà, a suo modo. Un conflitto fra diverse visioni della democrazia. Una conta finale sulle istituzioni della Repubblica assai più di quanto non lo sia stato il referendum Renzi di nove anni fa.
È un aspetto da non sottovalutare. Soprattutto perché il pronunciamento degli elettori sulla legge Nordio sarà il momento della verità dopo 33 anni di equivoci sul primato fra poteri. Dal 1993, da Mani pulite, la sovranità sarà anche rimasta formalmente attribuita al popolo, ma è difficile dissentire da chi, come il professor Tullio Padovani ironizza e definisce l’Italia una Repubblica fondata sull’esercizio dell’azione penale in cui, a ben guardare, la sovranità appartiene ai pubblici ministeri.
È un’iperbole, che racconta molte cose. Sublima lo sbilanciamento fra politica e magistratura derivato dalla fine della Prima Repubblica.
E di qui a pochi mesi, dopo 33 anni, di fatto gli italiani saranno chiamati a dire se per loro va ancora bene così. Se sono convinti di lasciare la politica subordinata alla magistratura. O se invece preferiscono tornare al disegno originario della Costituzione. Non c’era bisogno della riforma sulle carriere di giudici e pm, in realtà, per affermare che, nella visione dei Costituenti, il primato del legislativo era indiscutibile. Certo, poi proprio l’uragano di Mani pulite provocò un effetto collaterale che ha scalfito l’impalcatura della Repubblica: la modifica dell’articolo 68, l’eliminazione della “vera” autorizzazione a procedere, dell’immunità parlamentare così com’era stata concepita dopo il fascismo.
Non c’era mai stata, da allora, una chiamata alle urne paragonabile a questa. Mai. Potremmo definirlo il referendum della verità. Chiarirà se gli italiani sono ancora convinti che serva un controllore potentissimo, per tenere in piedi il nostro sistema democratico. Se deve restare così potente, quel controllore – il pubblico ministero –, da poter controllare persino la carriera di colui, il giudice, dinanzi al quale dovrebbe essere una semplice parte, al pari della difesa. Vediamo se gli italiani vogliono mantenere un assetto del genere. Vediamo se preferiscono tenere ancora in vita un sistema in cui la magistratura requirente ha, nei confronti della politica, dei partiti politici, una postura da implacabile giustiziere, da censore che garantisce la repressione di un altro potere intrinsecamente inaffidabile, naturalmente portato al malaffare: i politici, appunto.
Sappiamo bene che a decidere l’esito del voto sulle carriere separate sarà probabilmente il prevalere di un odio anticasta sull’altro. È indiscutibile che, se nelle urne di primavera vincesse il Sì alla riforma Nordio, si dovrà attribuirne buona parte del “merito” alla diffidenza che nel frattempo il caso Palamara ha suscitato, negli elettori, anche nei confronti della magistratura. Fino a rendere tale disprezzo almeno pari a quello avvertito nei confronti della casta principale, cioè della politica. Magari a decidere sarà semplicemente questo.
E poi sappiamo bene un’altra cosa: che il centrosinistra, in particolare, tenderà, più o meno volontariamente, a invocare il No alle carriere separate come voto antigovernativo, come plebiscito anti Meloni. Il che vuol dire anche che l’eventuale vittoria del Sì potrà banalmente spiegarsi con la perdurante prevalenza dell’elettorato di centrodestra sull’altro schieramento. Ma ci piace pensare che stavolta accadrà qualcosa di diverso da quanto avvenne nel 2016 con il referendum fatale a Matteo Renzi.
Allora davvero la trasversale ostilità all’ex premier fu determinante nella bocciatura di una riforma costituzionale assai meno connotata, sul piano del colore politico, di quanto Renzi non avesse, per sua sventura, voluto far credere.
Il referendum sulla separazione delle carriere è invece, assai più di quanto avvenne nove anni fa, una consultazione sui valori, sui princìpi. In gioco c’è, come detto all’inizio, il ritorno alla sovranità della politica sulla magistratura, su un ordine che dovrebbe pur sempre essere costituito da alti funzionari dello Stato anziché da salvatori della patria.
Chi dà per scontata la vittoria del Sì sottovaluta forse che, dopo il 1993, la fiducia degli italiani nel Parlamento e nell’impianto costituzionale è andata a picco. Se il voto sul ddl Nordio rivelasse che qualcosa è cambiato, saremmo di fronte a una svolta epocale. Sarebbe forse il vero inizio di una nuova Repubblica. Ma ecco, è un esito così clamoroso che sarebbe da ingenui considerarlo già acquisito.