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FILE - In this Friday, Feb. 23, 2018 file photo, an employee walks by banners with name and sign of energy firm Eni at Strovolos area in capital Nicosia, Cyprus. Oil giants Shell and Italy’s Eni were acquitted Wednesday, March 17, 2021 of corruption charges in a $1.1 billion bribery case involving control of a lucrative oil block on Nigeria. In addition the companies, Eni’s current CEO, his predecessor and a former Nigerian oil minister were among 13 defendants acquitted in the three-year-old trial, involving the 2011 purchase of the OPL245 block. (AP Photo/Petros Karadjias, File)
«Non vi è prova logica sufficiente a fondare la responsabilità penale di Alhaji Aliyu Abubakar». Bastano dieci pagine, su oltre quattrocento, alla giudice Tiziana Landoni per smontare l’ultimo frammento del processo Eni-Nigeria, conclusosi il 15 luglio con l’assoluzione dell’uomo d’affari nigeriano in abbreviato. Il pm Fabio De Pasquale - nel frattempo condannato insieme al collega Sergio Spadaro a 8 mesi per aver nascosto prove nel troncone principale del processo - lo accusava di aver convertito in contanti circa 500 milioni di dollari trasferiti da Londra su conti di società riconducibili al suo gruppo, somme che secondo l’accusa sarebbero servite a corrompere funzionari locali tramite cambiavalute. Il verdetto, «perché il fatto non sussiste», chiude l’ultimo filone di un’inchiesta durata più di dieci anni, dopo l’assoluzione definitiva dei vertici Eni e Shell.
Nel corso degli anni, Abubakar — soprannominato Mister Corruption dalle autorità nigeriane e dall’Fbi per la gestione dei fondi legati alla licenza petrolifera Opl 245 — era diventato il simbolo della presunta “cassaforte” della corruzione africana. In Italia, la sua posizione era rimasta sospesa per questioni procedurali, ma il capo d’imputazione era identico a quello degli altri: corruzione internazionale in concorso. Accusa risultata priva di fondamento.
Secondo la procura, Abubakar avrebbe agito da intermediario dei pubblici ufficiali nigeriani, ricevendo fondi dalle compagnie petrolifere e distribuendoli a membri del governo. La sentenza ricostruisce invece un quadro opposto. Le motivazioni riprendono quasi integralmente quelle con cui il Tribunale di Milano aveva già “asfaltato” l’impianto accusatorio nel processo principale: «La prospettazione accusatoria è tutta incentrata su una sorta di risk assessment, fondata su elementi valoriali e reputazionali, non su prove dirette. Non vi è un fatto, ma solo inferenze illative». La tesi dei pm, osserva la giudice, si reggeva più sulla “reputazione” dei protagonisti e sul contesto di corruzione sistemica in Nigeria che su prove documentali o testimoniali di un patto illecito concreto.
Una valutazione severa che ricalca quella con la quale la procuratrice generale Celestina Gravina aveva messo la pietra tombale sul troncone principale, definendo l’intera costruzione accusatoria «basata su chiacchiere e opinioni generiche», grazie alle quali «la più grande società italiana è stata tenuta in ostaggio» mentre tredici imputati finivano «sulla graticola». Gravina era arrivata a parlare di «colonialismo della morale» da parte del pm De Pasquale: come «le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto», il magistrato avrebbe imposto la propria linea, sostituendosi a organi democraticamente eletti. Un’accusa politica e simbolica durissima.
Nel processo principale erano imputati l’ad Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, l’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete, quattro ex manager di Shell e diversi intermediari, tra cui Roberto Casula, Vincenzo Armanna, Ciro Pagano, Obi Emeka e Luigi Bisignani. Tutti assolti. Il Tribunale ha ritenuto non dimostrata l’esistenza di un accordo corruttivo tra le compagnie e i pubblici ufficiali nigeriani, rilevando anzi come le prove disponibili «contrastino con l’esistenza di pregressi patti illeciti tra le parti».
Il castello accusatorio era crollato anche per le contraddizioni del suo principale testimone, Vincenzo Armanna, ex manager di Eni. I giudici avevano definito «dirompente» un video in cui Armanna, dopo il licenziamento, pianificava di «far arrivare un avviso di garanzia» ai vertici della società, promettendo ai colleghi «una valanga di merda» mediatico-giudiziaria. Due giorni dopo, come da copione, si presentò in procura per accusarli di corruzione. Per il Tribunale, questo episodio minava in radice la sua attendibilità.
Ma l’accusa aveva tenuto nel cassetto quella prova, insieme ad altre che dimostravano l’inattendibilità del teste, da qui la condanna per De Pasquale e Spadaro per omissione di atti. Un fatto che, per molti osservatori, svuota l’argomento secondo cui la separazione delle carriere garantirebbe maggiore imparzialità ai pubblici ministeri e una ricerca delle prove anche a favore dell’imputato.
Quanto ad Abubakar, le sentenze riconoscono la sua centralità operativa nella gestione dei fondi provenienti dalla società Malabu, ma non ravvisano alcun elemento penalmente rilevante. «Le prove raccolte non consentono di affermare che la maggior parte dello stesso (o addirittura l’intera somma monetizzata) sia stata destinata ai pubblici ufficiali nigeriani che avevano reso possibile la sottoscrizione degli accordi concernenti la licenza esplorativa OPL 245», si legge nella sentenza. Il giudice rileva inoltre che «le indagini non permettono di comprendere compiutamente il ruolo assunto dall’odierno imputato».
L’accusa sostiene che Abubakar fosse intermediario dei pubblici ufficiali, ma «potrebbe anche aver agito quale rappresentante del socio occulto della società Malabu», ossia Sani Abacha, figlio del generale e dittatore nigeriano, che proprio in quel periodo aveva promosso una causa civile per rivendicare la propria quota in Malabu. «Sulla scorta del complessivo compendio probatorio — scrive Landoni — potrebbe, al più, ravvisarsi un’intesa illecita tra Dan Etete e i pubblici ufficiali nigeriani risalente alla primavera 2010, ma si tratterebbe di una corruzione commessa in Nigeria, in ordine alla quale sussiste il difetto di giurisdizione italiana.»
La decisione accoglie integralmente la richiesta di assoluzione avanzata dall’avvocato Carlo Farina, respingendo la condanna a cinque anni proposta da De Pasquale. Insomma, mancano prove che le somme gestite da Abubakar siano giunte a pubblici ufficiali, né esiste evidenza di un accordo corruttivo. Qualunque cosa egli abbia fatto, scrive la giudice, «è avvenuta su territorio straniero». Di conseguenza, la giustizia italiana non aveva nessuna voce in capitolo.
La sentenza chiude così una lunga stagione di processi, confermando un principio elementare ma troppo spesso dimenticato: nel diritto penale, il sospetto non basta. O, come ricorda Landoni citando la sentenza di primo grado, «la certezza richiesta nel processo penale non può ridursi alla verosimiglianza».


