Negli ultimi giorni l’attenzione mediatica si è spostata dal giudice contabile Marcello Degni al procuratore aggiunto della Corte dei Conti Tommaso Miele. Il motivo? La possibilità che quest’ultimo giudichi la condotta di Degni, autore dell’ormai famoso e scomposto post su X contro l’esecutivo («Potevamo farli sbavare di rabbia sulla manovra»). Ieri, i quotidiani filogovernativi (Il Giornale, Libero e La Verità) sono andati contemporaneamente all’attacco di Miele in una rincorsa al sensazionalismo e alla suggestione.

Nel dedicare attenzione al procuratore aggiunto della Corte dei Conti - definito dagli addetti ai lavori, magistrati, avvocati e professori universitari, un “fine giurista” e un “servitore dello Stato” - c’è stata la riproposizione di notizie trite e ritrite, già ampiamente smentite dallo stesso Miele in passato. Il riferimento è ai tweet attribuitigli negli anni scorsi, tra il 2016 e il 2018, con i quali si esprimeva su Matteo Renzi e sul M5S, lodando il partito dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Nulla di nuovo rispetto alle esternazioni social, scoperte dal Foglio, attribuite a Tommaso Miele, che, sin dal primo momento, ha con fermezza smentito gli ex cinguettii. I tweet, affermò già qualche anno fa, vennero pubblicati a sua insaputa, dato che era solito lasciare il tablet in giro in ufficio e qualcuno, con tutta probabilità, ha voluto tendergli una trappola. Nelle analisi dei giornali filogovernativi è sfuggito un altro particolare non di poco conto. Una differenza di approccio tra i due magistrati contabili, sottoposti alle dure critiche di questi giorni. Tommaso Miele, come è stato appena ricordato, non ha mai riconosciuto la paternità dei post su Twitter.

Anzi, ha sempre ribadito che furono creati per delegittimarlo, sbarrandogli di fatto la strada per la corsa al vertice della Corte dei Conti, mentre Degni ha rivendicato fieramente la paternità dei post sulla piattaforma social di Elon Musk e li ha difesi in nome della libertà di espressione e di pensiero.

Tra le accuse rivolte a Miele, inoltre, quelle di essere stato un magistrato vicino al Movimento Cinque Stelle, sempre respinte dal diretto interessato. Lo dimostrano le dichiarazioni in numerose manifestazioni pubbliche, compresi convegni e seminari. Come poteva conciliarsi una visione del mondo demagogica, populista e giustizialista, tipica dei pentastellati, con una grande considerazione per il rispetto dei diritti (di tutti) che rifiuta il giustizialismo «alimentato da odio e voglia di vendetta»? Impossibile una miscela del genere.

Il discorso di Tommaso Miele ( si veda anche Il Dubbio del 27 febbraio 2021), in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la sezione Lazio della Corte dei Conti, è un esempio di equilibrio, lucidità e conoscenza approfondita delle condizioni in cui versa la giustizia, non solo quella contabile. «Oggi – disse Miele – la nostra società è permeata da un giustizialismo alimentato da una sorta di voglia di vendetta, di odio sociale, che si sta quasi affermando come fine ultimo della giustizia, e che sta offuscando quei sacri principi di diritto scritti a caratteri cubitali nella nostra Carta costituzionale».

La Costituzione che «non a caso si pone, per questa parte, fra le più avanzate del mondo», aggiunse Miele. Il culmine del suo garantismo lo troviamo in questo passaggio: «Oggi sembrano essersi smarriti quei sacri principi quali la presunzione di non colpevolezza, il principio secondo cui “onus probandi incumbit ei qui dicit” e non viceversa: l’esercizio della funzione giurisdizionale deve essere finalizzato all’affermazione della giustizia e all’accertamento della verità, e non alla vendetta; al diritto del cittadino a una giustizia rapida, efficiente e soprattutto giusta; al diritto un giusto processo, al diritto a una ragionevole durata del processo».

Le parole sulla responsabilità, sull’onere persino pedagogico che ricade sui magistrati sono illuminanti. «Soprattutto noi giudici – scrisse il magistrato – dobbiamo impegnarci a che non si affermi questa cultura del diritto e della giustizia», senza considerare l’accertamento giudiziario come vendetta. Di qui l’impegno a riaffermare con forza «la cultura delle garanzie, dei diritti del cittadino». Una riflessione sulla giustizia mediatica, quella che si ripresenta ciclicamente e provoca i danni maggiori, Tommaso Miele la pose all’attenzione di chi prese parte all’inaugurazione dell’anno giudiziario di tre anni fa: «Il tempo che scorre è già una condanna, specie se già il solo fatto di essere sottoposti a un processo viene comunque strumentalizzato attraverso una micidiale macchina del fango, sui media e sui social network». Parole più che mai attuali.