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«Il pentimento di Schiavone? Dopo 26 anni di carcere l’ho trovato molto strano, mi chiedo quale sia il contributo che potrebbe dare. Di sicuro potrebbe svelare il mistero dell’omicidio di Antonio Bardellino, mai risolto». A parlare a LaPresse è Sergio Sellitto, oggi dirigente dell’Interporto Campano, negli anni ’90 vicequestore della Polizia di Stato in servizio alla Direzione investigativa antimafia, alla guida della squadra «Yanez» che l’11 luglio 1998 a Casal di Principe riuscì a catturare Francesco Schiavone detto Sandokan, boss del clan dei Casalesi.
La cattura, ricorda Sellitto, arrivò al termine di «un’indagine dura, faticosa e laboriosa, durata 8 mesi asfissianti». Dopo aver seguito una pista che portava a ritenere che Schiavone fosse nascosto in una località del Nord Italia, il cerchio degli investigatori andò a stringersi proprio su Casal di Principe. «Il momento operativo - racconta Sellitto - è scattato quando abbiamo finalmente avuto la certezza che la moglie stava andando a trovarlo nel suo nascondiglio. Abbiamo seguito il lungo e tortuoso percorso compiuto dalla donna, che passava da un’auto all’altra guidata da sue amiche che giravano per Casale senza dare nell’occhio, lei a volte stesa sul sedile posteriore per non farsi notare. Una volta individuata l’abitazione nella quale ritenevamo si trovasse Schiavone, siamo entrati alle 22.40».
Dopo oltre un’ora di perquisizione, però, di Sandokan non c’era traccia. «Ma due elementi ci hanno fatto ritenere che non ci fossero errori investigativi: una delle donne che accompagnava la moglie di Schiavone piangeva in auto perché aveva sentito del blitz della Dia, e alle 3 di notte sul posto era stata inviata un’auto per prendere la moglie, segno evidente che la donna era lì nascosta e non poteva uscire. Abbiamo avuto così la conferma che stavamo seguendo la pista giusta e abbiamo proseguito a perquisire fino al mattino, quando abbiamo notato dei tubi che finivano nell’asfalto. Abbiamo lanciato dei lacrimogeni che inizialmente sembravano non aver sortito alcun effetto». Poco dopo però, «dopo un ennesimo scavo, abbiamo sentito una voce. Era lui, Schiavone, nascosto nel bunker. Disse “non sparate, sto qui con i bambini”. Era lì con la moglie, una delle figlie e un suo cugino con il figlio».
La prima conversazione tra Sellitto e Schiavone è avvenuta poco dopo, negli uffici della Dia: «Gli ho chiesto se la pista che inizialmente mi aveva portato in Alta Italia era giusta. Mi rispose dicendomi “io non parlo mai della mia latitanza”. Poi è stato portato in carcere». Oggi, dopo 26 anni di detenzione al 41 bis, Schiavone ha deciso di collaborare con la giustizia: «Ventisei anni sono molti - ragiona Sellitto - oggi lo scenario è diverso da quello di allora e non so di cosa possa parlare. Su una cosa però può fare chiarezza: l’omicidio Bardellino, un grande mistero della camorra napoletana e casertana. Probabilmente si partirà da lì».
Prima di rimettere da parte i ricordi dell’operazione Yanez che nel 1998 ha portato alla cattura di Schiavone, Sellitto tiene a sottolineare un aspetto delle indagini: «Lui ha sempre ritenuto che la nostra attività investigativa fosse stata supportata da una fonte confidenziale. Nulla di può sbagliato: è stata una classica indagine pura, siamo partiti da un fascicolo, abbiamo creato una rete di sorveglianza elettronica sui familiari e il cerchio si è chiuso su Casal di Principe. Mai ricevuto alcuna notizia confidenziale».