LA SOSPENSIONE DI CONTE ORDINATA DAL TRIBUNALE DI NAPOLI

La decisione del Tribunale di Napoli di sospendere cautelarmente le delibere dell’Assemblea del Movimento 5stelle, tra cui la nomina di Giuseppe Conte alla carica di Presidente del Movimento, ha suscitato una grande eco e un grande dibattito.

Per la verità poco si è discusso del merito giuridico della decisione. Molto invece sull’accettabilità politica di un sindacato giurisdizionale sulla vita interna a un partito. Le due cose però sono molto legate. Il Tribunale di Napoli, infatti, non si è pronunziato su una scelta politica, ma sulla legittimità che tale scelta fosse assunta in violazione delle norme che regolano la vita interna al partito. Il pasticciaccio dei 5S e la necessità di conciliare l’autonomia della politica con i diritti degli iscritti

La sospensione della nomina di Conte non può essere liquidata solo come ingerenza delle toghe

La decisione del Tribunale di Napoli di sospendere cautelarmente le delibere dell’Assemblea del Movimento 5stelle, tra cui la nomina di Giuseppe Conte alla carica di Presidente del Movimento, ha suscitato una grande eco e un grande dibattito.

Per la verità poco si è discusso del merito giuridico della decisione. Molto invece sull’accettabilità politica di un sindacato giurisdizionale sulla vita interna a un partito.

Le due cose però sono molto legate. Il Tribunale di Napoli, infatti, non si è pronunziato su una scelta politica, ma sulla legittimità che tale scelta fosse assunta in violazione delle norme che regolano la vita interna al partito. In particolare in violazione della sua Carta fondamentale che è lo Statuto. Anzi il Tribunale ha precisato che quelle scelte, compresa la decisione di negare il voto agli iscritti degli ultimi sei mesi ( uno dei temi in questione), si sarebbe potuta legittimamente assumere se fosse stata seguita la strada indicata dallo Statuto stesso per consentirlo ( l’approvazione di un regolamento che non è mai avvenuta).

Al contrario, nelle deliberazioni dei primi di agosto, non avendo seguito l’iter statutario, il movimento ha scelto una scorciatoia: ha utilizzato per modificare lo Statuto, la procedura che serve invece per “consultare” gli iscritti.

E’ evidente che tra consultare e deliberare una modifica statutaria ne corre un bel po’.

La democrazia è una brutta bestia, ed è cosa diversa dall’acclamazione e dalla demagogia. La democrazia vive delle sue regole. E la forma, come diceva il grande giurista Rudolph von Jheirng, è “il nemico giurato dell’arbitrio”.

Per misurare le dimensioni della “scorciatoia” utilizzata dai dirigenti del partito, basti pensare che, in base a quanto risulta dalla pronuncia del giudice di Napoli, perché la decisione fosse stata legittima in base allo statuto, avrebbero dovuto partecipare alla votazione 98 mila iscritti, mentre, effettivamente, hanno partecipato solo 60 mila ( quasi 40 mila in meno).

Le obiezioni principali alla decisione, però, sono di ordine politico generale e sostanzialmente si concentrano sulla contestazione che sia corretto affidare a un giudice una decisione che riguarda la vita interna di un partito. E’ stato detto, e scritto, che questa soluzione violerebbe infatti il principio di “separazione dei poteri”, assoggetterebbe la politica alla magistratura, consentirebbe di invadere la sacra sfera interna dei partiti.

La questione è certamente importante e delicatissima. Del resto non se n’è discusso solo in Italia.

Gia nel 1924 una nota sulla Harvard Law Review ricordava come fino al 1880 fosse esclusa qualsiasi interferenza giurisdizionali sulla vita interna dei partiti, rilevando però che con l’introduzione delle primarie la situazione era cambiata e le party internal disputes non potevano più essere sottratte al controllo giurisdizionale, perché era necessario tutelare gli interessi di quegli iscritti lesi dalle decisioni interne.

Da allora, negli Stati Uniti, come nella maggior parte degli ordinamenti costituzionali si sono realizzate modalità di controllo interno ai partiti, che non si risolvono esclusivamente in forme di giustizia domestica, ma che ammettono l’intervento giurisdizionale “dall’esterno”.

Anche in Italia il dibattito ha subito un’evoluzione che ha condotto a superare le originarie scelte di declinare la giurisdizione sui partiti, fino ad ammettere il sindacato dei giudici. C’è una lunga serie di precedenti di questo genere, alcuni dei quali riguardano, negli ultimi anni, proprio dispute interne al movimento 5 stelle. Un episodio famoso fu quello del ricorso di Marco Pannella contro la decisione del PD di escluderlo dalla partecipazione alle primarie per la segreteria. Ricorso respinto, nel merito, dal Tribunale di Roma. Malgrado, dunque, la prassi del sindacato giurisdizionale sulla vita interna ai partiti sia consolidata, ciò non vuol dire che la questione non meriti di essere discussa. Essa impone di andare ai fondamenti della costruzione dei processi democratici.

Ma è importante sottolineare che la problematica non può esaurirsi considerando solo la dimensione relativa ai rapporti tra politica e magistratura. Una dimensione altrettanto importante è quella che riguarda la tutela dei singoli e delle minoranze rispetto al potere delle élite che dirigono il partito, le quali se non contese e chiamate alla responsabilità rischiano di trasformarsi in oligarchie.

La domanda dunque è: come assicurare che le procedure non vengano sovvertite da maggioranze vere ( o presunte), che tali appaiono proprio perché quelle procedure sono state alterate?

I meccanismi di giustizia interna, invocate da alcuni, non possono essere l’unico rimedio.

Lo dice anche la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa che, nel dicembre 2020, insieme all’Office for Democratic Dnstitution and Human Rights dell’ OCSE, ha elaborato delle Linee guida sulla regolazione dei partiti politici. Al par. 75 di quel documento si afferma chiaramente che “i membri del partito dovrebbero avere accesso alla giustizia civile contro gli abusi” delle autonome regole interne, ma solo dopo aver esaurito le vie della giustizia domestica, qualora esistenti.

La giustizia domestica, dunque, non può avere l’ultima parola e tantomeno essere la soluzione. La preoccupazione di un condizionamento della magistratura, che non può certamente escludersi, va risolta altrimenti. Magari affidando a giurisdizioni particolarmente qualificate un simile sindacato. In Germania, la Costituzione prevede che il Tribunale costituzionale controlli la legittimità dei partiti rispetto ai principi di organizzazione previsti dall’art. 21 della Legge fondamentale. Su queste basi all’inizio degli anni ’ 50 del secolo scorso furono dichiarati fuori- legge il partito comunista e quello neonazista.

E’ vero, quella competenza riguarda la legittimità in sé del partito, più che le vicende interne, ma in tale valutazione contano anche le modalità organizzative dello stesso.

Da noi per lungo tempo, e in parte ancor oggi, l’art. 49 della Costituzione è stato interpretato come se volesse preservare una sorta di “extraterritorialità” del partito politico. Interpretazione contestata sin dall’origine da alcuni giuristi e oggi decisamente recessiva.

Ancora una volta, dunque, il dibattito dovrebbe evitare i soliti toni manichei, che a noi piacciono tanto, e indirizzarsi verso una riflessione più equilibrata su problemi e soluzioni.

Del resto che i singoli e le minoranze debbano godere di una tutela effettiva non può essere contestato.

Lo si desume indirettamente proprio dall’articolo 49, il quale com’è noto, riconosce “ai cittadini” il diritto di associarsi in partiti. Il partito non è dunque un’entità astratta, ma, appunto, l’associazione di quei cittadini in carne e ossa. Sarebbe paradossale che, capovolgendo questo approccio, si facesse del partito un’ipostasi che cancella e si impone sulle posizioni individuali che ne costituiscono la vera sostanza. Non faremmo un buon servizio alla democrazia.