Il numero uno del Nazareno convoca il congresso e annuncia: «Non mi ricandiderò» Eppure a mancare non sono gli uomini ma l’identità del partito

Tra le due sole strade che aveva di fronte dopo la mazzata nelle urne, dimissioni immediate o convocazione del congresso senza ricandidarsi, Enrico Letta ha scelto la seconda ed era nell'aria già dalla tremenda domenica della sconfitta. Ha pensato che un secondo autolicenziamento in tronco, dopo quello di Zingaretti, sarebbe stato il colpo di grazia per un partito già messo in ginocchio dal voto: «Abbiamo bisogno di riflettere. Convocherò il congresso per marzo e non ci sarà la mia candidatura. Sono tornato da Parigi, richiamato dal partito, con due obiettivi: evitare la disgregazione del Pd e porre le basi per un governo progressista dopo le elezioni. Ho raggiunto il primo obiettivo ma fallito il secondo». Gli encomi per il segretario uscente però si fermano qui. Letta non ha saputo trovare un solo accento di riflessione critica sulla sua leadership e sull'indirizzo del partito nell'ultimo anno e mezzo. Ha distribuito colpe a destra, Calenda, e a manca, Conte, salvando solo il suo Nazareno. Se la è presa con l'essere stati per 11 anni, salvo breve parentesi, al governo. Come se governare e rendersi impopolari fossero sinonimi. Ha auspicato una linea comune delle opposizioni senza spiegare perché dopo la sconfitta sia possibile e lecito averci a che fare con i 5S mentre quando era possibile evitare la sconfitta era proibito.

Non è solo una questione di leadership personale, anche perché addossare al solo Letta tutte le responsabilità sarebbe truffaldino. È questione di identità politica, cioè del nodo scorsoio che soffoca il Pd, la sinistra e lo stesso corretto funzionamento del sistema democratico. A quel nodo il segretario non ha alluso neppure alla lontana. Ha detto sì, che urge una riflessione e sarebbe un segnale positivo se lo si prendesse sul serio. Purtroppo i precedenti del Pd non lo rendono facile.

Riflettere infatti non vuol dire scegliersi un altro segretario mentre proprio questo è stato sempre il riflesso pavloviano del Pd di fronte a ognuna delle sue frequentissime crisi. E la scelta è stata sempre dettata da considerazioni di opportunità o di smerciabilità sul mercato elettorale, mai da una consapevole scelta politica. Certo, a volte il segretario eletto perché prometteva salvezza ha poi cercato di imporre la sua linea, cioè da comportarsi da segretario di partito invece che da testimonial di un prodotto. Ma in quei casi, anzi in quel singolo caso, il partito ha reagito malissimo e proprio queste reciproche incomprensione e incompatibilità sono all'origine del disastro compiutosi durante la segreteria Renzi. Se il Pd scegliesse una linea e poi di conseguenza indicasse il segretario adeguato a gestirlo sarebbe già un passo fondamentale. Nulla autorizza a credere che il Pd possa e voglia farlo.

Il congresso di marzo si troverà di fronte a un bivio: optare per un'identità orientata verso una sinistra, moderata ma inequivocabilmente tale, oppure verso un orizzonte compiutamente centrista, sia pur con una componente sociale marcata. Nel primo caso Elli Schlein o Peppe Provenzano sarebbero segretari possibili, pur se non gli unici, nel secondo la scelta potrebbe cadere su Stefano Bonaccini, ma anche in questo caso non sarebbe il solo papabile. Sempre che la decisione rinviata da 14 di assumere una vera fisionomia prevalga su quella della scelta di un leader messo lì per coprire senza risolverli i guai di un partito mai davvero nato.

Il problema è che in realtà esiste una terza ipotesi ed è di gran lunga la più forte: lasciare la gestione nelle mani dei capibastone, come il potentissimo Dario Franceschini, la cui strategia passa proprio per il non scegliere, non ancorarsi mai a un'identità precisa in modo da poter scegliere di volta in volta quella più utile e opportuna per arrivare in un modo o nell'altro al governo. Questo è stato sinora l'orizzonte politico del Pd e di più asfittici ce ne sono pochi.

Dunque, forse, il vero primo passo che il Pd dovrebbe compiere è ancora più basico ed elementare: provare a esistere, ad avere identità politica, ragion d'essere, visione, strategia, idea di società anche senza governo e a prescindere da quanto agevoli il ritorno a un qualche governo. Sembra facile ma per il Nazareno è peggio che scalare l'Himalaya.