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L'ex Ilva di Taranto
«Finirà come a Bagnoli, se non si svuota l’altoforno». È una frase che il ministro Adolfo Urso pronuncia a Taranto quasi due settimane fa, sabato 10 maggio. È una frase drammatica ed evocativa nello stesso tempo. Intendeva dire, il responsabile delle “Imprese e del Made in Italy” – come si chiama, dal 2022, il dicastero dello Sviluppo economico – che se la Procura di Taranto non avesse autorizzato il “colaggio” dell’acciaio fuso dall’impianto ex Ilva, quel gigante in grado di sfornare 2 milioni di tonnellate l’anno sarebbe diventato inservibile, e l’intera area siderurgica pugliese avrebbe fatto la fine del sito partenopeo, con analoghe conseguenze occupazionali, sociali e sistemiche.
E a Napoli l’altoforno è spento dal 1991. Sono passati 34 anni, la piana di Bagnoli è una sterpaglia ingombrata da residuati dell’antico splendore industriale, la bonifica è un romanzo mai avveratosi e i posti di lavoro non se li ricorda più nessuno. Poi certo, la battuta di Urso può pure passare per un lapsus di disperato ottimismo, visto che nel 2027 a Napoli ci sarà la Coppa America e i team velistici si accamperanno proprio a Bagnoli, con il probabile, improvviso completamento della bonifica mai vista in 34 anni. Ma parliamo della vita di svariate generazioni trascorse nel nulla occupazionale. E c’è da augurarsi che non sia questo l’orizzonte a cui guarda il governo.
Oggi la battuta non si è risentita. Urso, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano (di FdI come il ministro), la titolare del Lavoro Marina Calderone e il resto della delegazione governativa hanno incontrato i sindacati dell’ex Ilva a Palazzo Chigi. Hanno detto chiaro e tondo che con l’altoforno “Afo 1” divenuto ormai inservibile, dopo che i pm hanno negato, appunto, il colaggio dell’acciaio fuso, si deve passare, dagli attuali 2.000 lavoratori in cassa integrazione, al raddoppio o quasi dell’ammortizzatore. Con un po’ di prepensionamenti, la soluzione che alle rappresentanze di operai e tecnici crea meno angoscia. Se ne riparla lunedì alla ripresa del tavolo. Ma da quella battuta scappata a Urso sabato 10 maggio, e ancora nelle considerazioni ribadite dal ministro delle Imprese, sempre ieri, alla Camera, durante il question time, tracima quell’insinuazione: dopo l’incendio del 7 maggio, il successivo sequestro degli impianti ordinato dalla Procura di Taranto avrebbe «impedito i necessari interventi di salvaguardia, compromettendo l’altoforno», sostiene il rappresentante del governo, con il dimezzamento della «produzione prevista».
In effetti, quegli “interventi di salvaguardia” non sono stati autorizzati dalla magistratura. Né all’atto del sequestro, avvenuto giovedì 8 maggio, né nelle ore successive. Cosicché, sempre secondo la ricostruzione del ministero, l’altoforno è diventato un corpo unico fra strutture e contenuto: l’acciaio fuso e incandescente che andava colato si è invece raffreddato e solidificato.
Ora l’impianto è inutilizzabile. Bisognerebbe farne saltare per aria una parte. Con costi impensabili. Tanto più se si considera che lo stop alla produzione richiederà in ogni caso, almeno in una prima fase, di destinare agli ammortizzatori sociali, e non agli investimenti produttivi, le risorse pubbliche. Già ampiamente impiegate in “Adi”, Acciaierie d’Italia, l’azienda in amministrazione straordinaria che attualmente gestisce il sito pugliese, nella speranza che gli azeri di Baku Steel si convincano a rilevare tutto.
Ora, la decisione con cui la Procura, e i giudici di Taranto, hanno negato gli interventi reclamati dall’Esecutivo è successiva, come detto, al pauroso incendio divampato all’ex Ilva mercoledì 7 maggio. Un incidente gravissimo, che solo per un miracolo non ha causato morti. Già la mattina dopo, la Procura di Taranto ha fatto eseguire il sequestro dell’altoforno. La polizia giudiziaria si presenta alle 5.45 del mattino. Il capo Area dell’acciaieria fa presente che «il forno è stato fermato senza adeguata preparazione della carica», cioè dei materiali già introdotti nell’impianto, e che «se la fermata dovesse superare un periodo di alcuni giorni, tale da determinare un raffreddamento dei fusi, il riavvio potrebbe risultare estremamente difficoltoso, se non impossibile». È una dichiarazione fatta allegare, dai tecnici dell’ex Ilva, al verbale di sequestro.
Nelle ore successive l’ufficio legale della società rinnova alla Procura l’istanza: «Autorizzateci a operare entro 48 ore». Sabato pomeriggio arriva una risposta dei pm, che danno l’ok alla “quasi totalità delle attività richieste, escluse quelle che apparivano confliggenti con le esigenze probatorie connesse al sequestro”, come ricostruirà, dopo tre giorni, una nota stampa degli inquirenti. Il punto è che tra gli interventi rimasti “proibiti” c’è proprio il colaggio dell’acciaio fuso. A suggerire di escluderlo è stato un parere dell’Arpa Puglia, secondo cui quel genere di manovra potrebbe celare in realtà l’intenzione di riprendere l’attività produttiva.
È un parere fatalmente sbagliato, sostengono, nelle successive interpellanze, diversi parlamentari di Fratelli d’Italia, e in particolare Giovanni Maiorano, nato ed eletto a Taranto, e Michele Schiano di Visconti, delegato meloniano nella commissione Attività produttive di Montecitorio. Lo ripetono nell’interrogazione a risposta immediata a cui Urso ha replicato oggi con le obiezioni sulle scelte delle toghe pugliesi: scelte che, insiste il ministro, avrebbero inciso «significativamente sul piano industriale, dimezzando la produzione».
Fine della storia? Probabilmente sì, almeno sul medio-breve termine. Morale della storia? L’autorità giudiziaria è chiamata spesso a decidere su materie di “natura estremamente tecnica”, come segnala proprio il comunicato diffuso il 13 maggio dalla Procura, ed è perciò che, spiegano i pm, è stata richiesta la valutazione dell’Arpa. Che però non è bastata, anzi: forse è stata fuorviante.
Ora Urso e i deputati di FdI attribuiscono, a quella valutazione, la responsabilità dei quasi 2.000 posti di lavoro andati per aria. Forse è troppo. Ma certo, che in casi del genere la logica dell’accertamento giudiziario debba prevalere sulle esigenze produttive, persino quando si tratta di scelte non reversibili e da assumere in tempi fulminei, è un paradosso che l’ordinamento italiano continua, incredibilmente, a non risolvere.