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È un appello alla correttezza quello lanciato dalla comunità scientifica dei medici legali, riunita al IV Congresso Inter(national) Gruppi Simla a Modena: è necessario mettere un freno alla diffusione di presunte testimonianze — spesso veicolate da carta stampata e televisioni — di soggetti del tutto incompetenti rispetto alle delicate e complesse tematiche della medicina legale e delle scienze forensi.
Tali interventi, infatti, rischiano non solo di essere fraintesi, ma anche di influenzare in modo distorto il dibattito mediatico, oscurando una corretta e rigorosa informazione nei confronti del pubblico. La richiesta della comunità medico-legale si fonda sulla necessità imprescindibile di riconoscere la profonda complessità che caratterizza la prova scientifica in ambito giudiziario. Da qui l’esigenza di creare occasioni strutturate di confronto e dialogo tra esperti forensi, giornalisti e operatori della comunicazione, che possano favorire la comprensione delle metodologie impiegate nella gestione e nello studio del materiale probatorio. Ed è un confronto fondamentale in un’epoca in cui l’informazione giudiziaria rischia di essere sacrificata sull’altare della spettacolarizzazione e della ricerca affannosa di risposte semplici e immediate.
Nel corso del Congresso, che ha visto confrontarsi oltre quattrocento esperti da tutta Europa, si è evidenziato come spesso l’opinione pubblica venga disorientata da narrazioni che non tengono conto della complessità scientifica e delle variabili intrinseche alle analisi forensi. Il punto di partenza è quindi un cambio di paradigma comunicativo: i medici legali chiedono che si smetta di trattare i singoli casi come show mediatici, per concentrarsi invece sulle metodologie, sui fenomeni, sulle procedure scientifiche e sulle loro evoluzioni, così da restituire al pubblico una visione più equilibrata e consapevole.
In questo senso, il dialogo con il mondo del giornalismo, rappresentato dall’esperienza del giornalista Stefano Nazzi, autore del podcast “Indagini”, è stato fondamentale per iniziare a colmare quel gap di linguaggio e conoscenza che spesso impedisce una corretta narrazione dei fatti forensi. Nazzi stesso ha ammesso come «spesso scriviamo di cose che non comprendiamo a fondo, senza chiedere a chi ne capisce davvero», evidenziando il bisogno di una maggiore collaborazione tra esperti e media.
«Bisogna partire da tre elementi chiari — hanno sottolineato i medici della Simla —. In primis la complessità del nostro lavoro, che non può essere semplificato, come invece avviene spesso nel tritacarne mediatico; poi la necessità di prendere coscienza che non esiste la certezza assoluta della prova scientifica; infine la consapevolezza dell’evoluzione continua della disciplina stessa. La prova scientifica dovrebbe essere un aiuto concreto per la giustizia, ma deve essere trattata con rigore, metodo e la massima cautela».
La Simla ha precisato che «l’opinione pubblica ha diritto di ricevere un’informazione corretta e adeguata. Il nostro ruolo è delicato e strategico: non possiamo intervenire pubblicamente nello specifico di un caso che stiamo seguendo come periti o consulenti, né, a maggior ragione, se ne siamo estranei. Come comunità scientifica non possiamo però sottrarci alla possibilità di fornire informazioni sulle complesse metodologie utilizzate nel nostro lavoro per semplificare senza banalizzare».
Il dibattito è quanto mai attuale, considerando il rinnovato interesse del pubblico sul caso Garlasco. «C’è dna sotto le unghie della vittima. Ma è utilizzabile? - si è chiesto Nazzi - Un perito dice di sì, uno di no. Ci saranno pure delle regole?». «Quando il dna è degradato, tutto si complica - ha risposti Susi Pelotti, Ordinaria di Medicina legale all’Università di Bologna ed esperta di genetica forense -. Da questa considerazione, infatti, sono nate anche in Italia le raccomandazioni sull’interpretazione dei profili genetici. Oggi non ci si chiede solo di chi è quel dna, ma come è arrivato lì. Quando ci troviamo in tribunale, il problema non è solo dire se è compatibile con una persona, ma capire il senso di quella compatibilità».
Un altro nodo centrale riguarda i bias cognitivi, cioè i condizionamenti che inevitabilmente influenzano anche gli esperti forensi. Isabella Merzagora, past president della Società Italiana di Criminologia, ha messo in evidenza che «se si è consulenti della difesa, è difficile essere neutrali. E lo stesso può capitare a consulenti del pubblico ministero, magari non volutamente ma per posizionamento professionale».
Nel campo della psico-patologia forense, Merzagora sottolinea un ulteriore rischio: «A volte cerchiamo qualcosa che non c’è e dobbiamo avere l’onestà di dire: non c’è nulla di patologico». La necessità di onestà scientifica è fondamentale per evitare “caccia al colpevole” a tutti i costi, fenomeno che ha portato a errori giudiziari e distorsioni mediatiche. C’è anche un cambiamento ideologico: oggi si pone molto l’attenzione sulla vittima, ma poco sull’impianto processuale. «Noi giornalisti abbiamo una responsabilità - ha concluso Nazzi - L’informazione dovrebbe essere bilanciata. Invece, spesso, ciò che si riporta proviene da una sola parte, senza il necessario contraddittorio. I giornalisti vogliono “subito”, il bianco o nero. Ma non è possibile offrire risposte semplici. Servono sfumature, distinzioni».