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Vincenzo Iaquinta
I beni della famiglia Iaquinta sono di provenienza lecita. Soldi versate dalle banche o uscite dalle tasche di Vincenzo, ex calciatore di successo, che poteva permettersi di certo anche di regalare un appartamento ai suoi genitori. A stabilirlo, il 3 agosto scorso, è stato il Tribunale di Bologna, che ha rigettato la richiesta di confisca avanzata dalla Dda relativamente ai beni di Giuseppe, Adele e Vincenzo Iaquinta, ex calciatore della Juventus. Un mondo, il suo, fatto di gol e corse sui campi verdi, stravolto nel 2015 da un’operazione antimafia che ha fatto finire in carcere centinaia di persone, compreso suo padre. Una tela che ha imbrigliato anche lui, il campione del mondo, che nella comunità calabrese dell’Emilia Romagna «è come Gesù bambino», spiegava al Dubbio anni fa il suo avvocato. L’ex calciatore è stato condannato nel processo “Aemilia” ad un anno (in primo grado a due), pena sospesa, per la mancata custodia di due pistole e 126 proiettili, ceduti, secondo il pm, al padre al quale, fin dal 2012, un provvedimento del prefetto di Reggio Emilia ne aveva proibito la detenzione. Ed ora la vita di Vincenzo è totalmente dedicata al padre Giuseppe, condannato perché considerato una figura strategica delle cosche emiliane legate al clan di Cutro. Per i giudici di Cassazione, che hanno confermato la condanna a 13 anni, il suo coinvolgimento nell’associazione mafiosa emergerebbe da una serie di fatti ritenuti significativi: «Il contenuto di alcune intercettazioni, la partecipazione a diversi incontri conviviali e i contatti con altri sodali durante veri e propri summit mafiosi». Secondo la sentenza di primo grado, il cognome Iaquinta era un biglietto da spendere «all'interno del sodalizio criminoso» per ottenere potere. Ma il figlio, che a quelle accuse non ha mai creduto, non ci sta. E ribalta la questione: «Coinvolgere me e mio padre era utile per dare visibilità al processo - racconta al Dubbio -. Ma noi con la ‘ndrangheta non c’entriamo nulla. A noi la ‘ndrangheta fa schifo».
Da Berlino alle aule di Tribunale, Vincenzo Iaquinta non ha mai perso la sua grinta. Dopo la sentenza di condanna in primo grado, davanti al Palazzo di Giustizia, urlò la sua innocenza attaccando la stampa, che aveva dipinto la sua famiglia come parte dell’élite mafiosa. E ora si dice «soddisfatto», perché «abbiamo fatto chiarezza su tutti i movimenti economici della mia famiglia. Ringrazio i miei avvocati per il lavoro divino che è stato fatto, ma anche il Tribunale di Bologna, che ha voluto vederci molto chiaro, chiamando un perito che per sei mesi ha analizzato tutte le carte e ha scoperto la verità». Stando al provvedimento, infatti, le consulenze tecnico - contabili supportano «l’ipotesi difensiva che gran parte delle finanze che hanno permesso di costruire il patrimonio immobiliare della famiglia Iaquinta derivassero dal figlio Vincenzo, calciatore professionista che disponeva, nel periodo di riferimento, di ingenti risorse», nell’ordine di decine di milioni di euro. E anche per il giudice, sono le «lecite provviste» dell’ex calciatore «la fonte finanziaria impiegata per la formazione del patrimonio sequestrato, sia quello personale dei suoi genitori sia quello della società Iaquinta Costruzioni S.r.l., della quale Vincenzo è stato socio per lungo tempo, certamente nel tempo di acquisizione del suo patrimonio immobiliare in questa sede sottoposto a vincolo». Quella di Vincenzo è, però, una gioia a metà: «Mio padre è in carcere ingiustamente e lotterò fino alla fine, perché è innocente. È una roba ingiusta. Questo è il primo passo per aprire qualche spiraglio sulla verità». Anche perché la richiesta di sequestro è arrivata un anno dopo la sentenza d’appello, a ridosso della Cassazione, un fatto sospetto secondo l’ex calciatore. «Hanno analizzato i conti dal 2004 ad oggi. E tutti i fondi derivavano da me o dalle banche. Non c’è una virgola fuori posto. La Dia è però venuta a fare il sequestro preventivo due mesi prima della Cassazione. Perché non si è presentata nel 2015? Forse perché così sarebbe emersa l’innocenza di mio padre - sottolinea -. Non è possibile che sia considerato un mafioso quando i suoi beni sono di provenienza lecita. E anche io sono stato tirato in mezzo per fare scena: non posso finire in un processo per ‘ndrangheta per aver spostato armi dichiarate. Era tutto un modo per avere un cognome eclatante. Un cognome che ha dato luce a questo processo, a livello mediatico. Ci hanno sempre sbattuti in prima pagina. Mio padre sta pagando ingiustamente». E per provarlo Iaquinta ha incaricato l’avvocato Andrea Saccucci di portare la questione a Strasburgo, davanti alla Cedu. Giuseppe Iaquinta si trova ora in carcere a Sulmona, dove il figlio si è recato la scorsa settimana assieme alla moglie e ai figli, dopo più di un anno dall’ultima visita. «Siamo scoppiati a piangere, non vedeva i nipoti da quattro anni - racconta Vincenzo -. Non vedo l’ora di dargli questa notizia». Il Tribunale ha però disposto per Giuseppe Iaquinta la sorveglianza speciale per cinque anni, con obbligo di soggiorno nel territorio del Comune di Reggio Emilia, provvedimento sospeso fino al termine della detenzione. Una decisione motivata dalla sua condanna per 416 bis, che ne conferma la pericolosità. «Quando sento dire che mio padre è pericoloso - conclude il figlio Vincenzo - vado fuori di testa. Ma sono sicuro che la verità prima o poi verrà a galla. E questo provvedimento mi dà ancora più forza per cercarla».
«Grande soddisfazione» è stata espressa anche dai professori Vincenzo Maiello e Tommaso Guerini, che assistono Giuseppe Iaquinta. Si tratta di «un provvedimento corretto ed equilibrato, che restituisce a Giuseppe Iaquinta la sua storia di imprenditore, sgombrando il campo da qualsiasi ipotesi di arricchimento illecito e con il quale il Tribunale di Bologna ha dimostrato una grande sensibilità per il rispetto delle garanzie difensive, non sempre comune nel procedimento di prevenzione. Ora si accendano i riflettori sulla enormità della condanna subita da Giuseppe Iaquinta per partecipazione a una cosca di 'ndrangheta. La decisione del Tribunale della prevenzione di Bologna, che restituisce tutti i beni sequestrati alla famiglia Iaquinta, certificando la legittimità della loro formazione, rende ancor più ingiusta quella affermazione di responsabilità, svelando in termini di maggiore chiarezza come essa scaturisca da cervellotici e fumosi ragionamenti, contrari ai fatti e distanti dalle regole della logica». Gli avvocati Tommaso Rotella, che assiste Vincenzo, e Roberto Ricco, che assiste Adele, esprimono a loro volta il loro plauso per questa decisione: «Abbiamo apprezzato il lavoro del Tribunale, che ha voluto approfondire ogni minimo movimento e questo rende il provvedimento ancora più chiaro ed incontestabile».