Provo a intervenire in difesa della reputazione, oltre che della libertà di espressione invocata dall’appello di Libération in favore del professor Luciano Canfora firmato da molti studiosi. Studiosi che ovviamente meritano il massimo rispetto – loro e le considerazioni che esprimono – ma permetteranno la mia ( assai più modesta) dissenting opinion proprio in nome del diritto che ritengono leso dalla querela della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, definita da Canfora “nazifascista nell’animo”.

In effetti, mi piacerebbe che si levassero voci e si firmassero appelli anche a favore dell’articolo 2 della Costituzione e del bene giuridico protetto dal reato di diffamazione, sopraffatti nel nuovo millennio dall’articolo 21 che tutela la libertà di espressione. Trattandosi di diritti fondamentali, non dovrebbero esserci vincitori e vinti. Sarebbe necessario cercare, ogni volta, l’equilibrio.

Occorrerebbe bilanciarli, come dice anche la Corte di Strasburgo. Invece, a un certo punto si è diffuso, a ogni livello a quanto pare, il convincimento che ciascuno possa dire ciò che vuole dove gli aggrada.

Alcune sentenze pronunciate nei processi per diffamazione probabilmente hanno contribuito: si è salvato in Cassazione, ad esempio, il cittadino che ha urlato “buffone, fatti processare” al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nell’ambiente politico e in quello sindacale, la “desensibilizzazione” rispetto al linguaggio aggressivo e la tipica natura conflittuale della contesa hanno fatto ritenere giustificato dal diritto di critica anche l’uso di “toni aspri e sferzanti”. Il problema, però, è che i toni sono divenuti sempre più aspri e sferzanti, in televisione, sui giornali e ovviamente sui social network. Un climax cui corrisponde l’espansione all’infinito del pubblico a cui potenzialmente si rivolge chiunque pubblica un post su una qualsiasi piattaforma, da Facebook a TripAdvisor. Siamo diventati tutti editori e più la spariamo grossa più i nostri messaggi hanno la chance di diventare virali. Per misurare le dimensioni del fenomeno, basti pensare che il New York Times ha 9 milioni di abbonati digitali mentre l’influencer Khaby Lame, che per fortuna ha un’indole pacifica, su Tik Tok ha 162 milioni di followers e con i suoi video ha attirato 2,4 miliardi di like. Ora, è probabile che il professor Canfora venga assolto proprio a causa della generosa giurisprudenza che si è consolidata in materia di critica politica. Ricordo che nel 2007, ad esempio, la Corte di Cassazione annullò senza rinvio la sentenza che aveva condannato un consigliere comunale per aver definito il sindaco “traditore”, “ingrato”, “squallido”,

“arrogante”, “antidemocratico”, “intollerante ad ogni forma di democrazia e fascista nel senso più deteriore della parola”. Nell’occasione, la Cassazione precisò che “dare gratuitamente del ’ fascista’ a un comune cittadino è certamente offensivo perché mira a dipingere lo stesso come arrogante e prevaricatore, ma riferirlo a un politico che, peraltro, esercita rilevanti poteri pubblici è espressione di critica perché si paragona il modo di governare e di amministrare la cosa pubblica dello stesso ad una prassi ben nota ai cittadini”. Prendo rispettosamente atto di questa posizione ma non la condivido. Mi pare che, in questo modo, la Cassazione abbia finito per elaborare una sorta di “diritto di insulto” nei confronti delle autorità e – fatalmente – di chiunque sia molto esposto. E’ di pochi giorni fa la notizia che il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione della querela di Fedez contro il presidente del Codacons che gli ha detto “sottospecie di cantante”, “ignorante”, “imbecille” e “ciuccio”. Queste non sarebbero offese. Vedremo cosa deciderà il giudice per le indagini preliminari sull’opposizione del cantante; ma non è forse vero che la posizione della procura di Roma liberalizza e legittima qualunque insolenza e villania? Poi non lamentiamoci se il preside di una scuola dice alla guardalinee spagnola che è andata a sbattere contro un cameraman ferendosi al viso la frase “sì vabbè... però oggettivamente se fosse stata in cucina a preparare tagliatelle ( cosa degnissima, che con ogni probabilità non sa fare), non si sarebbe fatta male, tesoro...”.

In un ordinamento rispettoso di tutti i diritti fondamentali – anche di quello alla dignità e alla reputazione – questa sarebbe “diffamazione per sottrazione”. Sottrazione di una qualità, di un attributo, di una competenza in grado di incidere negativamente sul credito sociale di cui gode il bersaglio dell’insulto. Ma mi rendo conto che la nuova versione, assoluta e intransigente, della libertà di espressione ormai ha prevalso. “Come può uno scoglio arginare il mare?” cantava Battisti. Insomma, il mio alla fine è un discorso sottile e tardivo. E a farlo rischio di essere denigrato anche io.