Dopo le bordate lanciate da Giorgia Meloni e Carlo Nordio contro il Tribunale dei Ministri, il Csm risponde con una pratica a tutela dei magistrati. A proporla al Comitato di presidenza è il togato indipendente Andrea Mirenda, che poi in Commissione ha ottenuto il voto di tutti i togati: Tullio Morello (presidente), Marco Bisogni ed Edoardo Cilenti. Astenuto il laico 5 Stelle Michele Papa, mentre ha votato contro il laico di centrodestra Enrico Aimi.

Mirenda ha preso le mosse dalle dichiarazioni rilasciate da Meloni nelle varie fasi della gestione mediatica del caso Almasri, il torturatore libico arresto su mandato della Corte penale internazionale e rimpatriato con volo di Stato a gennaio scorso per evitare - questa la spiegazione finale - ritorsioni agli italiani e agli stabilimenti energetici a Tripoli. Subito dopo aver ricevuto, da parte della procura di Roma, la comunicazione riservata di iscrizione, che la informava dell’invio al Tribunale dei Ministri della denuncia presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti, Meloni - la cui posizione è stata successivamente archiviata - ha pubblicato sui social un video nel quale attaccava pesantemente la magistratura, di fatto inaugurando la campagna referendaria per la separazione delle carriere.

Il testo di Mirenda mette in fila le dichiarazioni rilasciate a partire dal 28 gennaio, quando Meloni ha definito il procuratore Francesco Lo Voi come «“lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona”, adombrando una sorta di movente politico dell’inchiesta sol perché scaturita da denuncia di parte avversaria», cioè da quel Li Gotti che Meloni ha definito «politico di sinistra molto vicino a Romano Prodi, conosciuto per avere difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi», si legge nella proposta del togato. Che va oltre: nella stessa occasione, infatti, Meloni aveva ribadito di non essere «ricattabile» e di non farsi «intimidire», affermando di essere «invisa a chi non vuole che l’Italia cambi e diventi migliore», cioè la magistratura.

Intervenendo, poi, all’evento “La Ripartenza”, condotto da Nicola Porro, Meloni aveva rincarato la dose, esplicitando il concetto: «Una parte dei giudici, per fortuna pochi - aveva detto - vogliono governare loro. Il problema è che se io sbaglio, gli italiani mi mandano a casa; se loro sbagliano, invece, nessuno può dire niente. Ma nessun potere al mondo in uno stato democratico funziona così - aveva detto -. Quando un potere dello Stato pensa di poter fare a meno degli altri, il sistema crolla. Se poi alcuni giudici vogliono governare che si candidino. Ma non si può fare che loro governano e io vado alle elezioni». Critiche dure, tanto da finire nel mirino di Mirenda, non certo sospettabile di difesa corporativa, dati i molti rimproveri rivolti quotidianamente ai colleghi e, soprattutto, favorevole al sorteggio dei membri del Csm, così come previsto dalla riforma costituzionale.

«Ferma restando la piena legittimità del diritto di critica, vero sale della democrazia che deve certamente valere anche nei confronti della magistratura - scrive il togato -, è tuttavia essenziale che il suo esercizio si mantenga sempre entro i confini del rispetto istituzionale. Quando è un potere dello Stato, nella specie l’Esecutivo, a rivolgere affermazioni che mettono in dubbio la correttezza o l’imparzialità dell’operato di un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, si rischia di compromettere la credibilità della funzione giurisdizionale». In uno Stato di diritto, continua il magistrato, «l’equilibrio tra i poteri si fonda sulla fiducia reciproca e sulla garanzia che ciascuno agisca nel rispetto delle proprie prerogative. Ogni interferenza che si traduca in una delegittimazione personale o istituzionale mina quel delicato equilibrio su cui si regge la nostra democrazia».

Potrebbe, però, non trattarsi dell’unica pratica relativa alla questione. Voci di palazzo, infatti, danno come possibile un’ulteriore richiesta, a seguito delle dichiarazioni rilasciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio dopo il voto in Parlamento, che eviterà il processo a lui, al collega Matteo Piantedosi (Interno) e al sottosegretario Alfredo Mantovano. «Da modesto giurista lo strazio che (il Tribunale dei Ministri, ndr) ha fatto delle norme più elementari del diritto è tale da stupirsi che non gli siano schizzati i codici dalle mani, ammesso che li abbiano consultati - aveva commentato -. È andata come doveva andare». Per il Tribunale dei Ministri, i tre membri di governo si sarebbero infatti macchiati, a vario titolo, dei reati di favoreggiamento, peculato e omissione di atti. Per la Camera, invece, è stato un atto politico, motivato da una questione di «sicurezza nazionale» e non - come contestato dai giudici, appunto - da un tentativo di «sottrarre Almasri al mandato della Corte penale internazionale».

Archiviata la questione giudiziaria, Nordio ha quindi affilato gli artigli, sparando a palle incatenate sui magistrati e sollevando sospetti sulla loro azione, un argomento fortissimo per la campagna elettorale, già infuocatissima, in vista del referendum. Tanto che la risposta dell’Anm non si è fatta attendere: «La magistratura, nel pieno rispetto del dettato costituzionale e seguendo le procedure previste per i procedimenti nei confronti di componenti dell’esecutivo, ha adempiuto a un suo dovere d’ufficio - si legge in una nota della Giunta esecutiva centrale -. Stupisce e rammarica che Il ministro della Giustizia, che ha un alto compito istituzionale, decida invece di venir meno a ogni principio di continenza, rispetto e misura, aggredendo in maniera scomposta dei colleghi, peraltro sorteggiati per far parte del Tribunale dei ministri, contraddicendo il più volte decantato intento di abbassare i toni». La discussione in plenum si prevede già tesissima, con i laici di centrodestra pronti a contestare la «natura politica» della pratica, così come già accaduto in precedenti occasioni. La battaglia, dunque, è solo all’inizio.