I FAVORITI

Uniti come un solo uomo. Ma fino a un certo punto. Il centrodestra, dopo la decisione di Fi e Lega di staccare la spina al governo Draghi, sta ostentando grande compattezza in vista delle prossime elezioni del 25 settembre. I vertici tra le forze politiche si susseguono e dopo avere raggiunto l’intesa sulla spartizione in percentuale dei collegi, anche l’intesa sul programma in linea di massima sembra ormai fatta. Compreso l’inserimento del Ponte sullo Stretto che ritorna carsicamente più o meno ad ogni appuntamento elettorale.

Tuttavia, dietro questa apparenza, la lotta interna è quanto mai serrata. E se quella sulla leadership è stata accantonata dando via libera al principio «chi ha più voti indica il premier», è chiaro che Salvini e Berlusconi stanno studiando ogni modo per potere riaprire la discussione a urne chiuse. Ma la lotta senza quartiere è quella sui ministri del futuro governo. Il leader della Lega vorrebbe che la squadra fosse indicata fin da subito, mentre Meloni e Fdi ritengono che ogni valutazione di questo genere debba essere affrontata soltanto con i risultati elettorali alla mano. Al massimo per Fdi, solo qualche nome potrebbe essere rivelato adesso. Salvini, come si è capito dal suo tour non proprio di successo a Lampedusa, vorrebbe tornare a fare il ministro dell’Interno. Ma da Fdi, a prescindere da ogni dichiarazione di facciata, non c’è questa disponibilità. E seppure Meloni abbia dichiarato che: «Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale», la possibilità che sia Salvini a doversene occupare, considerando i suoi pregressi, non è argomento all’ordine del giorno. Ma la Lega guarda con sospetto anche alle dichiarazioni eccessivamente “atlantiste” di Meloni che, secondo qualcuno, starebbe ascoltando in qualche modo i suggerimenti di Mario Draghi, anche in ordine ai possibili nomi da inserire nel futuro governo per conferirgli maggiore autorevolezza.

C’è poi la questione legata al simbolo, che Berlusconi ha presentato con soddisfazione, ma che riporta i nomi dei leader delle forze principali e ha destato la vivace protesta di Maurizio Lupi e Giovanni Toti che si sono uniti in una lista in qualche modo “draghiana” ( e il nome del premier torna di nuovo) in modo da controbilanciare la lista di Azione con Calenda che continua ad imbarcare i governisti di Forza Italia. E, insieme ad essa, la spartizione dei collegi intesa non in senso quantitativo ( problema risolto), ma qualitativo: e cioè tra collegi certi, impossibili e contendibili. Anche da questo punto di vista il lavoro per chiudere il cerchio si prevede molto farraginoso. A dimostrazione del celato stato di tensione che si registra tra i partiti del centrodestra, ecco l’esplodere della grana siciliana. Il governatore Nello Musumeci si è dimesso, formalmente senza ragioni politiche, ma solo per consentire l’accorpamento delle elezioni siciliane con quelle nazionali e far risparmiare circa 40 milioni alle casse della Regione. Ma, informalmente, è chiara l’intenzione di Musumeci, osteggiato dalla componente di Fi che si riconosce in Gianfranco Miccichè, di accelerare sulle scelte e non aspettare l’esito delle politiche. Fdi ha dichiarato che non farà altri nomi oltre all’uscente e Lega e Fi dovranno ben valutare il da farsi, considerando che presto anche la Lombardia dovrà decidere sull’uscente Fontana.