IL COMUNICATO DOPO L’INVASIONE DI CAMPO

È la «cultura della ricerca della prova», bellezza. Il presidente facente funzione del Tribunale di Milano Fabio Roia e il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei rispediscono al mittente le accuse formulate dall’Ocse che aveva criticato i giudici italiani - e in particolare quelli meneghini - per l’eccessivo tasso di assoluzioni nei processi per corruzione. I giudici di Milano replicano all’Ocse «In Italia esiste il giusto processo»

I presidenti di Tribunale e Corte d’Appello: «Accettiamo le critiche, non le delegittimazioni»

È la «cultura della ricerca della prova», bellezza. Il presidente facente funzione del Tribunale di Milano Fabio Roia e il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei rispediscono al mittente le accuse formulate dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che aveva criticato i giudici italiani - e in particolare quelli meneghini - per l’eccessivo tasso di assoluzioni nei processi per corruzione internazionale. Un’accusa tacciata sia dalla magistratura sia dalla politica come una indebita invasione di campo, una mossa partita come difesa d’ufficio dei magistrati che hanno rappresentato l’accusa nel processo Eni- Nigeria e che è finita colminare la cultura dell’indipendenza della stessa magistratura. Per Roia e Ondei - che hanno inoltrato la missiva anche al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al Csm -, se si può accettare «ogni critica alle sentenze pronunciate», tali critiche non possono debordare «in un ulteriore grado di giudizio surrettiziamente introdotto che delegittimi le decisioni adottate secondo le regole del giusto processo italiano». Nel suo rapporto, l’Ocse aveva criticato l’Italia innanzitutto per aver assolto troppa gente: gli ultimi sette processi per corruzione internazionale si sono chiusi con cinque assoluzioni, una sesta parziale e una condanna. E in particolare, il gruppo di lavoro aveva portato ad esempio il procedimento Eni- Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati e una scia di critiche ai magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che ora rischiano il processo a Brescia per la gestione delle prove di quel procedimento. Per l’Ocse, invece, sarebbero proprio loro due a dover essere presi come esempio. Una conclusione alla quale l’organizzazione è giunta senza valutare l’enorme mole di atti del processo, che ha richiesto 45 udienze istruttorie e 13 udienze dedicate alla discussione e le cui prove erano contenute in 40 faldoni. L’errore dei giudici, secondo l’Ocse, sarebbe quello di non aver considerato «contemporaneamente la totalità delle prove fattuali», valutando «ciascun elemento di prova solo singolarmente». Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni, appello al quale la procura generale ha poi rinunciato, non senza qualche polemica nei confronti dei pm che hanno rappresentato l’accusa in primo grado. L’Ocse ha anche criticato lo «standard di prova molto pesante nei casi di corruzione all'estero» richiesto dalla giustizia italiana. Parole, spiegano i vertici degli uffici giudiziari milanesi, che «stupiscono» perché così si ritiene che «nella migliore delle ipotesi» i giudici non siano «adeguatamente capaci nella valutazione del materiale probatorio» e «troppo esigenti sul piano della richiesta di una consistenza probatoria».

Roia e Ondei hanno dunque difeso «l'impegno e la professionalità dei giudici chiamati a celebrare processi di grande impatto mediatico, di rilevanza internazionale ma che necessariamente devono seguire delle precise regole di giudizio e di civiltà giuridica non derogabili neppure per questioni, peraltro condivisibili, che riguardano il contrasto alla corruzione nazionale e internazionale», si legge ancora nella lettera. I due magistrati hanno difeso il metodo di valutazione della prova, ricordando «come l’ordinamento costituzionale e penalistico prevedano primariamente una lettura del singolo indizio per accertarne la matrice ontologica e per depurarlo dalla categoria metagiuridica del sospetto e quindi una valutazione in punto di consistenza, precisione, unidirezionalità e ciò nell’ambito del principio del libero convincimento del giudice, controllato attraverso la logicità e coerenza della motivazione e validato attraverso tre gradi di giudizio esperibili da tutte le parti processuali». E in ogni caso, hanno ricordato, per valutare gli indizi ci sono «tre gradi di giudizio esperibili da tutte le parti processuali». Ma quello che l’Ocse non ha calcolato è anche il principio della responsabilità penale «al di là di ogni ragionevole dubbio» e che «gli indicatori di pesatura probatoria» non possono «variare a seconda della difficoltà del reato da accertare», pur «comprendendo la problematicità di provare un patto corruttivo fra due o più soggetti cointeressati maturato in territorio estero». Roia e Ondei hanno anche ricordato che è compito dell’organo inquirente l'onere della raccolta delle prove per arrivare ad una condanna, elemento che nel caso Eni- Nigeria rappresenta proprio uno dei nodi problematici. «La motivazione della sentenza, che ha ricostruito 20 anni di vicende per la cessione della licenza petrolifera, è stata di circa 500 pagine», hanno dunque concluso i due magistrati, evidenziando lo sforzo «doverosamente enorme» nella trattazione della vicenda.