Tutto confermato. Le Sezioni unite civili della Cassazione, presidente Biagio Virgilio, relatore Annalisa Di Paolantonio, hanno rigettato i ricorsi presentati dai 5 ex togati del Csm che avevano partecipato, la sera del 9 maggio 2019, all’ormai celebre incontro presso l’hotel Champagne di Roma.

È quanto si legge nelle circa 130 pagine di motivazioni della sentenza deposita ieri. Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, Pierluigi Morlini e Luigi Spina erano stati condannati a dicembre del 2021 alla sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per un periodo, a seconda delle posizioni, fino a diciotto mesi, per aver posto in essere una «grave scorrettezza» nei confronti dei colleghi.

A distanza di cinque anni cala dunque definitivamente il sipario su quello che èè passato alle cronache come un “complotto”, a cui avrebbero partecipato politici, fra cui il dem Luca Lotti, e magistrati, Luca Palamara in primis, per far nominare Marcello Viola procuratore di Roma, poi indicato dallo stesso Csm a capo dei pm di Milano. L’incontro venne registrato tramite il trojan inserito nel cellulare dell’allora presidente Anm Palamara, all’epoca indagato per corruzione dalla Procura di Perugia e poi assolto.

Una fuga di notizie, di cui non si è mai scoperto il responsabile, fece diventare di pubblico dominio l’incontro e terremotò la magistratura italiana, determinando l’intervento del Capo dello Stato Sergio Mattarella e le dimissioni dei 5 togati, che pure non sono mai stati accusati di alcun reato. Con la pronuncia della Suprema corte, viene affermato anche il principio secondo cui le intercettazioni compiute nell’ambito di procedimenti penali possono essere “riciclate” nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Valutazione certamente favorita dalla sentenza costituzionale sul “caso Ferri” ma che ha risvolti clamorosi, innanzitutto per il contrasto che determina fra la giustizia italiana e il diritto europeo.

Nel giudizio sui 5 ex togati per i quali le condanne sono diventate definitive, l’intero impianto accusatorio della procura generale della Cassazione si basava esclusivamente sugli ascolti effettuati tramite il trojan, le cui modalità di utilizzo avevano evidenziato non poche ombre. Era emerso come i finanzieri del Gico sapessero della presenza di alcuni parlamentari all’incontro con l’indagato Palamara e che avrebbero dovuto staccare, dunque, il trojan, in ossequio all’articolo 68 della Costituzione. La giurisprudenza europea ha stabilito, appunto, che le intercettazioni effettuate in ambito penale non possono essere utilizzate nei procedimenti disciplinari. Ma per la Cassazione ci sarebbe un “orientamento consolidato” esattamente contrario.

La circostanza non può non destare sorpresa e rischia di costare all’Italia una procedura d’infrazione, proprio per la violazione dei principi stabiliti dalla Corte di Giustizia Ue e dalla Cedu. Quanto accaduto riporta inevitabilmente alla memoria le frasi pronunciate dall’ex giudice costituzionale Nicolò Zanon che, lo scorso dicembre, a proposito del conflitto di attribuzione tra il disciplinare del Csm e il Parlamento sull’utilizzo di quelle stesse intercettazioni nei confronti del giudice Cosimo Ferri – anch’egli presente allo “Champagne” e in quel momento deputato Pd –, affermò che sarebbe stato deciso dalla Consulta sulla base della volontà di dare “pregiudizialmente” ragione al Csm. In caso contrario, tutte le decisioni disciplinari adottate dallo stesso Consiglio superiore e dalla Cassazione, compresa appunto la rimozione dalla magistratura di Palamara, avrebbero potuto essere azzerate.

«È una sentenza inaspettata», è stato il laconico commento del professor Mario Serio, difensore di Criscuoli che, peraltro, si era “autodenunciato” al Csm in quanto, rimasto quasi sempre in silenzio durante tutta la serata, la sua voce non era stata registrata dal trojan. «Le sentenze si rispettano ma si possono non condividere. Si tratta di una decisione di una severità estrema. Il mio assistito, un bravissimo magistrato, ha avuto il solo torto di trovarsi al momento sbagliato al posto sbagliato», ha affermato invece Vittorio Manes, difensore di Morlini.