PHOTO
Esisterà mai un pubblico ministero che trovi la forza per dire che non esiste giustizia a cinquant’anni dai fatti? Evidentemente non a Torino. Dove, dopo tre anni di indagini sulla preistoria del terrorismo, la procura si accinge a chiedere il rinvio a giudizio per concorso in un omicidio del 1975 un gruppetto di ottantenni delle Brigate rosse: Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada.
Una storia tragica che si era già chiusa con due morti, la brigatista Margherita Cagol e l’appuntato Giovanni D’Alfonso e un’assoluzione, su richiesta dello stesso pm, quella del brigatista Lauro Azzolini. Un’ordinanza che oggi viene revocata senza che nessuno la possa leggere perché andata distrutta in un’alluvione che ha portato via con sé tutte le carte del palazzo di giustizia. Un figlio, ieri bambino e oggi pensionato, che non si dà pace per l’uccisione del padre, valoroso servitore dello Stato. E un marito, già capo delle Brigate rosse, che a questo punto chiede pure lui giustizia perché la moglie terrorista potrebbe esser stata giustiziata mentre si era arresa e stava con le mani alzate.
Ha senso occuparsi di tutto ciò? Da punto di vista storico forse si, anche se forse quei morti meriterebbero il diritto all’oblio. Ma l’operazione giudiziaria appare alquanto cinica. Perché è probabile che, non sappiamo in quale fase, l’inchiesta finirà archiviata o con assoluzioni. E perché in ogni caso la giustizia dopo cinquant’anni nei confronti di qualche ottantenne difficilmente darà soddisfazione a chi questa inchiesta ha voluto. Si tratta di Bruno D’Alfonso, pensionato sessantacinquenne, che chiede giustizia per l’assassinio del padre, morto troppo giovane quando lui era un bambino di dieci anni. Era l’alba delle attività terroristiche delle Brigate rosse, quando ancora non avevano affinato le proprie capacità organizzative fino a riuscire a rapire il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Tentarono quella volta un’operazione di autofinanziamento, con il rapimento dell’imprenditore del settore vinicolo Vittorio Vallarino Gancia e la richiesta di riscatto di un miliardo di lire. Era il 4 giugno del 1975.
Nel giro di ventiquattr’ore il nascondiglio, la cascina Spiotta, località in provincia di Alessandria, fu scoperto e l’imprenditore, morto due anni fa novantenne, liberato. Non in modo indolore. Ci fu una sparatoria e due morti sul terreno, l’appuntato Giovanni D’Alfonso e la brigatista Margherita Cagol. E un terrorista in fuga, a quanto pare. Fu sospettato Lauro Azzolini, uno dei dirigenti del nucleo storico delle Br. Ma un giudice istruttore, sollecitato anche dalla richiesta dello stesso pm, lo assolse nel 1987.
Questa è la storia di cinquant’anni fa. Tutti i capi delle Brigate rosse nel frattempo sono stati arrestati e condannati per tutti i reati commessi, e hanno scontato decine di anni di carcere. Azzolini per esempio, condannato all’ergastolo per una serie di gravi reati, è stato in prigione per 24 anni, dopo essersi dissociato dal proprio passato e aver di conseguenza fruito della legge del 1987 per chi avesse preso le distanze dal terrorismo. Un’altra persona, rispetto agli anni del rapimento Moro e anche della tragica sparatoria della cascina Spiotta, rispetto alla quale si è sempre dichiarato estraneo. Un ottantenne che viene richiamato improvvisamente a vestire i panni del ragazzo che fu. Per quel che ammette di aver fatto e anche per quello che dice di non aver commesso. Perché? Ha qualche senso?
Che soddisfazione può avere oggi Bruno D’Alfonso dal veder messo in ceppi ( ammesso che qualcuno trovi il coraggio di farlo) un signore di ottantun anni dal passato sciagurato ma che è già stato assolto da un giudice per quello stesso fatto che gli viene imputato di nuovo? Si dice che siano state trovate, a molti anni dal fatto, le sue impronte digitali su un documento interno delle Br in cui veniva ricostruita la dinamica della sparatoria di quel giorno di cinquant’anni fa. Ma quante mani avranno toccato quel documento? Pare ci siano anche tracce di lacrime su quei fogli, perché ognuno piange i propri morti, e la fine tragica di Margherita aveva straziato i cuori anche di coloro che avevano saputo provocare la morte e il pianto di altri.
Poi succede che subentri il tragicomico, perché quel documento che certificava l’assoluzione di Azzolini nel 1987 sia finito trascinato via, insieme a tanti altri, dalla forza dell’acqua dell’alluvione del 1994 che ha investito la città di Alessandria e il suo tribunale. Quella sentenza ora è stata revocata, ma nessuno ha potuto leggerla. Così il combattivo avvocato Davide Steccanella, che assiste Azzolini, si è precipitato a ricorrere in Cassazione, dove gli hanno risposto che la sua richiesta è prematura. In fondo sono solo passati cinquant’anni.
Poi, siccome la pesca a strascico rimane sempre lo sport preferito dai procuratori, ecco che ad Azzolini viene trovata compagnia. Gli affiancano Pierluigi Zuffada, per il sospetto che abbia rivestito il ruolo di “postino”. Anche in questo caso l’indizio consisterebbe in impronte digitali, rilevate sempre a posteriori, sulla lettera di richiesta del riscatto per la liberazione dell’imprenditore. E fino a questo punto stiamo parlando di indizi discutibili ma con la concretezza di qualche pezzo di carta con sopra impronte. Ma il concorso di Renato Curcio e Mario Moretti come possiamo definirlo? Di tipo morale? Tra l’altro i due sono stati capi delle Br in momenti diversi, prima uno e dopo l’altro. Ma avrebbero partecipato alla stesura di un libretto a uso interno, in cui venivano istruiti i militanti delle Brigate rosse ai comportamenti da tenersi in caso di conflitto a fuoco con le forze dell’ordine.
Una sorta di concorso in opera letteraria, dunque. In ogni caso Curcio, un altro ottantenne che di Margherita Cagol era anche il marito, non ha perso occasione per ritrovare il proprio spirito battagliero. E ha chiesto pure lui giustizia, consegnando alla procura di Torino una memoria in cui si legge che dall’autopsia sul corpo della moglie emergerebbe con chiarezza che “Margherita in quel momento fosse disarmata e le sue mani fossero alzate”. Il sospetto che qualcuno abbia compiuto un’esecuzione su una persona che si era arresa. Ora staremo a vedere, dopo che la procura avrà avanzato la richiesta di rinvio a giudizio per i quattro indagati, se ci sarà a Torino un giudice che avrà il buonsenso di dire che la giustizia dopo cinquant’anni non può più essere giustizia e archivierà il caso.