Non entro nei dettagli, non serve. Per dare l’idea della questione può bastare anche solo un atto. Ad esempio, l’atto del Presidente dell’Anac del primo giugno 2024. È indirizzato a tutte le amministrazioni pubbliche; compresi – per quanto qui interessa - gli Ordini professionali. A loro il Presidente Anac scrive: so che dal 3 giugno siete tenuti ad attestare di aver pubblicato tutta una serie di dati. Dunque vi indico come dovete fare. Sia chiaro comunque che è un adempimento importante, perché “promuove la trasparenza pubblica quale principale misura di prevenzione di fenomeni corruttivi”. Pertanto chi vi scrive – appunto l’Autorità chiamata a contrastare la corruzione – vigilerà su di voi analizzando le vostre attestazioni.

Un atto così, come molti altri, presuppone che si sia già risposto alla domanda di base: come devono operare gli Ordini? E presuppone che la risposta sia stata: gli Ordini sono enti pubblici e sono conseguentemente sottoposti alla disciplina pubblicistica in tutto ciò che fanno.

Disciplina - va detto – che nella realtà, più che un coerente complesso normativo, è come una ragnatela: dalle disposizioni sul personale si passa - senza soluzione di continuità - alle regole sull’accesso e la trasparenza, e poi agli obblighi di utilizzo delle piattaforme informatiche, di acquisizione del Cig, di applicazione del codice dei contratti pubblici, fino alla responsabilità e alla giurisdizione erariale (le risorse economiche di un ente pubblico sono pubbliche per definizione).

Inutile chiedere conferma all’Anac sul fatto che tu sia dentro la ragnatela: è come chiederlo a chi l’ha tessuta. Invece, come succede spesso, sei da solo quando devi capire a quali norme sei sottoposto; e devi considerare ciò che sei e ciò che realmente fai. Dunque, quanto agli Ordini degli avvocati - e a quelli professionali in genere - davvero sono assimilabili a una pubblica amministrazione?

Prima di tutto, non esiste una pubblica amministrazione come nozione unitaria. Di amministrazioni, ce n’è un’ampia varietà. Ciascuna persegue una propria gamma di interessi pubblici e per questo è dotata di competenze specifiche e di poteri più o meno estesi. In questo eterogeneo panorama, gli Ordini professionali non soltanto si collocano ai limiti del perimetro delle pubbliche amministrazioni. Lo oltrepassano, nel senso che sono trasversali. Sono qualificati come enti pubblici, ma quella è solo una parte della definizione. L’altra parte è che hanno un carattere associativo.

Non è un dato irrilevante: prima di essere enti pubblici, gli Ordini sono – sia come origine storica, sia come funzione – enti esponenziali di una determinata categoria professionale. Il loro riconoscimento come enti pubblici viene dopo. Viene cioè quando l’interesse di una collettività ristretta e qualificata che esercita la medesima attività professionale viene inquadrato nell’interesse della generalità all’ordinato esercizio di quell’attività professionale, con la tutela sia di chi svolge quell’attività sia di coloro cui è resa. Ed è un’evoluzione ancor più necessaria nel caso in cui a quella professione siano collegate funzioni di rilievo costituzionale (come la difesa in giudizio).

Gli Ordini professionali sono cioè due cose insieme: svolgono una funzione pubblica ma devono anche rispondere alle esigenze degli iscritti. Conta la realtà, che è dunque articolata e complessa, e non le definizioni nominalistiche. Il che è coerente, del resto, con la logica interpretativa euro-unitaria, che guarda alla sostanza delle cose e all’effetto utile, cioè al perseguimento delle finalità della normativa.

Ciò detto, è però evidente che la situazione crea incertezze applicative e gravose complessità burocratiche. Ci vorrebbe un intervento legislativo per fare chiarezza.

Anzi, una norma c’è già. È un inciso interno al co. 2-bis dell’art. 2 del d.l. 101/2013 (introdotto lo scorso anno):“Ogni altra disposizione diretta alle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non si applica agli ordini, ai collegi professionali e ai relativi organismi nazionali, in quanto enti aventi natura associativa, che sono in equilibrio economico e finanziario, salvo che la legge non lo preveda espressamente”.

Una norma di ampia portata (come rilevato fin dalla sua emanazione, in particolare da Giuseppe Colavitti, coordinatore dell’Ufficio studi del Cnf). Prima, bastava che una normativa si riferisse alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2 d.lgs. 165/2001 - il Tupi, testo unico del pubblico impiego - perché fosse ritenuta applicabile agli Ordini professionali. Ora invece gli Ordini non sono più tra le amministrazioni menzionate in quella disposizione. Non sono più, cioè, compresi nella generalità delle amministrazioni pubbliche, cui si applica indistintamente la generalità degli obblighi pubblicistici. Si inverte così il rapporto tra regola ed eccezione: gli Ordini devono rispettare i soli obblighi cui siano espressamente sottoposti dalla legge.

Certo, non è un esempio di adeguata collocazione legislativa, all’interno di un comma aggiunto in sede di modifica di un decreto legge; e può sembrare riferita solo alla normativa in tema di pubblico impiego. Ma, come detto, tocca il fondamentale art. 1, co. 2 Tupi, che rileva anche al di fuori del Tupi.

Una norma del genere produce dunque un cambio di impostazione generale e, allo stesso tempo, già fornisce un criterio per distinguere ciò che si applica e ciò che non si applica agli Ordini tra le disposizioni vigenti. E ad essa saranno da far seguire le scelte concrete coerenti con la riconosciuta peculiarità degli Ordini. Ma, se posso, rispettosamente: non chiedete all’Anac…