Londra si è svegliata con un’aria mesta: più del settanta percento della città non vuole le Brexit, ma dovrà subirla a causa del voto delle campagne. Già, l’Inghilterra rurale si è presa una grande rivincita nei confronti dell’odiata metropoli, ricca e opulenta.  E’ questo il risultato del referendum indetto dal Premier Cameron, un paese spaccato a metà su più fronti: centri urbani contro campagne, giovani contro vecchi, ricchi contro poveri. Senza contare il voto simbolicamente secessionista di Scozia e Irlanda del Nord. Insomma un vero capolavoro politico che il Primo ministro britannico pagherà caro, annunciando già le sue dimissioni e rimettendoci la leadership del Partito Conservatore, un partito balcanizzato dall’esito del referendum. Non che il Labour si sia comportato meglio: a parte il sindaco di Londra Sadiq Khan, l’establishment laburista ha fatto una campagna dichiaratamente opaca, melliflua, temendo di rimetterci il voto della working classe schierata contro le elites pro-EU. Soprattutto il suo segretario Jeremy Corbyn, non si è visto e non si è sentito. Il risultato allarmante è che nelle roccaforti operaie del nord il leave ha stra-vinto, mentre la cintura rossa è stata il cuore pulsante dell’avanzata di Brexit.  Nemmeno l’omicidio della deputata inglese Cox è riuscito a smuovere la macchina laburista che avrebbe dovuto andare nei quartieri popolari a spiegare le conseguenze per Brexit ai lavoratori, con quattro milioni di posti di lavoro a rischio e la recessione dietro l’angolo. Già, la sinistra europea ha ormai perso ogni contatto con il voto popolare, non solo non riesce ad intercettarlo, ma ha persino paura di confrontarsi con esso.Il sindaco di Londra Khan invece si è rimboccato le maniche e il risultato si è visto: Londra ha fatto una bellissima e strugente dichiarazione d’amore all’Europa. Lo stesso vale per Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese che adesso come annunciato chiederà un nuovo referendum per l’indipendenza del suo popolo. La Scozia non vuole fare parte di un ritorno all’Impero britannico. Uscire dall’UE per loro significa diventare nuovamente soggetta allo strapotere centrale di Downing Street. Queste ferite aperte che dall’Italia possono sembrare marginali in realtà vengono vissute come un pericolo per l’unità britannica, un paese, che ricordiamocelo, ha avuto una storia nazionale travagliata, anche di lotta armata. In questo senso, il dato pro-Europa dell’Irlanda del Nord è indicativo. Il progetto della Grande Inghilterra che si nasconde dietro i fumi della Brexit mira a ricostruire qualcosa che avevamo superato: il nazionalismo britannico esasperato basato sulla storia imperialista e colonialista di questo paese, lo strapotere dell’elites inglesi sul resto del paese, la croce di San Giorgio che riappare alle finestre. In questo senso, l’UE era il nemico d’abbattere perché si tratta di un’assise dove il Regno Unito è membro paritario e non guida superiore rispetto agli altri paesi membri. Qualcosa di molto diverso dal Commonwealth britannico. E infatti il partito Ukip vero vincitore insieme a Boris Johnson della partita referendaria, si è distinto per una campagna  infusa di slogan nazionalistici e identitari, al limite del razzismo contro gli immigrati (ex cittadini) europei. Il tema dell’immigrazione è stato, ovviamente, la spada di Damocle sul destino del referendum.Londra, città globale, però non è caduta nella trappola dei nazionalisti. La sua crescita, il suo benessere è basato sull’integrazione europea e sull’internazionalizzazione. Per questo motivo, la capitale teme il contraccolpo di Brexit nel lungo termine. Le banche d’affari hanno già deciso che si sposteranno a Dublino. Le imprese internazionali, interessate al mercato comunitario, idem. Le università si preparano a tagliare fondi e corsi (non è un caso che tutte le cittadine universitarie da Oxford a Warwick abbiano votato per il Remain). C’è anche il rischio concreto che nel mondo della finanza, cuore pulsante della City, ci siano licenziamenti di massa. Insomma altro che Indipendence day, Londra teme un vero e proprio armageddon. Beffardamente il crollo di Londra colpirebbe anche le campagne che hanno votato Brexit, essendo la capitale l’unico vero volano dell’economia inglese, soprattutto dopo la dismissione dell’industria pesante. C’è anche chi pensa che la città di Londra possa andare per contro proprio come Scozia e Irlanda del Nord, ma questa per adesso è fantapolitica. Anche se sui social questa tentazione secessionistica della capitale prende sempre più piede come riportato da Huffington Post e dall’Evening Standard.Motore di questa insofferenza contro il risultato di Brexit sono senza dubbio i giovani. Più del 70% di loro ha votato per l’Europa. Loro saranno anche quelli più arrabbiati quando le conseguenze economiche di questa scelta si inizieranno a sentire sulla pelle. Soprattutto, se come pare, Bruxelles si lancerà in una linea dura contro Londra per scongiurare che altri paesi seguano l’esempio inglese. I giovani britannici sono arrabbiati con i vecchi, sentono come un’ingiustizia che i loro nonni decidano per il loro futuro. Si sentono privati della possibilità di studiare, lavorare e viaggiare. Si sentono imprigionati claustrofobicamente in un paese che guarda al passato invece che scommettere nel futuro. Nel pub di Islington dove ho seguito lo spoglio dei risultati ce n’erano molti di giovani. Quando il risultato di Brexit è diventato quasi certo, una rabbia collettiva è salita dalla pancia. Il colmo è stato quando Farage è apparso sul maxischermo. Una bottiglia di vetro è volata per colpirlo al grido di “Fuck off”. I giovani britannici sono davvero arrabbiati, delusi. Il referendum del 23 giugno ci consegna insomma un paese dilaniato, arrabbiato, diviso a metà su opposti schieramenti. E adesso, dopo le annunciate dimissioni di Cameron, anche un paese senza guida, con il partito di maggioranza balcanizzato e l’opposizione destinato alla irrilevanza. Cameron avrebbe dovuto aspettare prima di annunciare le dimissioni, si sarebbe dovuto sedere al tavolo dei negoziati per salvare il salvabile. Con una vittoria del 52 % non è pensabile che l’UK esca fuori da tutti i trattati. Avrebbe dovuto mettere il buon senso al primo posto esercitando la sua leadership per guidare il paese in una transizione morbida. Purtroppo per lui, se c’è una lezione chiara che questo referendum ha dato è che i leader non si improvvisano e che il buon senso non si impara ad Oxford.