Scappare non gli scappa niente. Tutto ciò che Gian Domenico Caiazza dice è esattamente ciò che vuole dire. Il che lo rende un po’ diverso dagli altri politici, ma neanche del tutto simile agli altri avvocati. L’ex leader dei penalisti è un minotauro a sé, metà radicale metà penalista, appunto. Per altro la figura mitologica si presta particolarmente a spiegare il personaggio, siccome il padre grecista e la madre latinista lo hanno imbevuto di classici fino al midollo. «Ero circondato».

Se poi l’avvocato resterà solo tale oppure scenderà anche in politica è ancora presto per dirlo, nelle ore in cui gira la voce per cui correrà alle Europee col cartello di Italia Viva e +Europa, “Stati uniti d’Europa”. «È una proposta che mi lusinga molto, ma devo ragionarci ancora un po’». Aspettiamo, e intanto torniamo al principio, la prima scelta che gli mise davanti Marco Pannella: il partito o il tribunale? Meglio: avvocato radicale o radicale avvocato?

«Ci ho pensato 48 ore e gli ho detto: ti ringrazio, ma preferisco fare l’avvocato radicale». Allora Caiazza avrà avuto poco più di 30 anni, e oggi a 68 non ha rimpianti. Non avrebbe più indossato la toga, imboccando la strada degli altri, Giovanni Negri e Francesco Rutelli. «L’infornata era quella». Invece Caiazza che fa, prende il metodo Pannella, e lo mette al servizio del diritto penale. Che con lui entra nelle tribune tv, nelle maratone oratorie, nei convegni, in piazza, ai banchetti. Diventa facile, a portata di tutti. Caiazza spiega, e il cittadino capisce, persino la prescrizione che ancora non l’ha capita nessuno. Il tutto con l’obiettivo di far passare il ragionamento «controintuitivo» per eccellenza: il garantismo. Ma perché? La domanda coglie Caiazza impreparato, fatto assai raro. Più che altro ha una spiegazione del perché fa l’avvocato. «Ho sempre trovato angosciosa l’idea del processo penale, cioè dell’accusa nei confronti di una persona che può avere delle conseguenze. Ecco, l’idea del carcere per me è stato sempre un incubo, trovo che sia una cosa mostruosa. E anzi, facendomi un’autoanalisi un po’ all’amatriciana, ho sempre pensato che si diventa penalisti per poter entrare in carcere sapendo che poi esci». Certo, poi ci sarebbe l’affare Tortora. Il «crack» Pannella.

Ma per arrivarci bisogna tornare a Salerno, dove Caiazza è cresciuto e dove il papà ha contribuito a fondare la Democrazia Cristiana. Professore severo, Caiazza senior insegnava al liceo Tasso, che ovviamente il giovane Gian Domenico è pronto a occupare con gli altri ragazzi. Entra nel comitato di agitazione, rompe con la strada dei padri. E se ne va a Roma a studiare giurisprudenza, dove il papà voleva che andasse ma anche che tornasse. E quello invece non solo non torna. Ma se ne va con il Pci, cioè diventa comunista, della componente ortodossa vicina al partito, ma senza la tessera in tasca.

Studente della Sapienza in quegli anni di fuoco, fine anni ‘70, frequenta la sezione Palmiro Togliatti di Cinecittà, nei pressi della residenza universitaria dei cavalieri del lavoro: la domenica distribuisce le copie dell’Unità. E fin qui, il padre ci sta. Ma poi Caiazza decide addirittura di mettersi con i radicali. E questo «papà non me l’ha mai perdonato». Né ha mai dato particolari segni di orgoglio, quelli che invece Caiazza dimostra per i suoi due figli, avvocata penalista lei, lobbista-filosofo lui. Una famiglia radicale, diciamo così, con in testa la moglie, che di Radio Radicale ora è vicedirettrice.

Del papà Dc, però, a Gian Domenico resta molto, come l’abitudine (imposta) del ripetere ogni giorno la stessa versione di greco fino a saperla all’impronta. Cioè di fare le cose per bene. «Gli devo molto». Il suo cruccio professionale? Ne ha uno, come ce l’ha Coppi per il caso Misseri: Ottaviano del Turco, condannato in via definitiva a 3 anni nell’ambito della cosiddetta Sanitopoli abruzzese. «È stato un innocente massacrato. Anche se è stato assolto da nove imputazioni su dieci. Anche se la sua condanna è stata ridimensionata in maniera così eclatante da dimostrare che hanno dovuto condannarlo per forza».

Di processi importanti Caiazza ne ha fatti tanti, Rigopiano, il caso Pittelli. Ma è Tortora a cambiargli la strada. E pensare che il penalista di oggi era partito con l’idea di fare il pretore in un piccolo centro, e di rimanerci per sempre. «Un’idea bizzarra». Poi a fare il magistrato non ci ha pensato più.

La tesi con Stefano Rodotà sulla tutela risarcitoria dei diritti della personalità gli apre le porte del Centro Studi Calamandrei, dove Pannella parla di cose lunari: informazione e diritti della persona, reputazione, identità personale. Fate conto che siamo nel ‘79: il tema è pura avanguardia, nel diritto. Fate conto anche che il Centro è su corso Rinascimento, di fronte al Senato, a due passi dallo studio legale Caiazza in cui troviamo. «Alla fine si sono ricongiunti i destini», dice lui.

Pannella lo aveva già folgorato un giorno in tv, mentre lo guardava scontrarsi con Gian Carlo Pajetta in una tribuna elettorale. «Mi sono reso conto che i valori del comunismo e del marxismo non erano mai stati miei, mi ero avvicinato a quel mondo per opposizione a una cultura dominante». Ma non era la sua strada, e glielo fece capire Pannella in un colpo con i suoi argomenti da liberare radicale. E con quest’idea di stare comodi nella minoranza, che Caiazza conserva e applica anche contro il populismo penale. «Non so se sia una cosa di cui vantarsi, è un dato di fatto. L’ambizione è di portare i valori della minoranza nella considerazione della maggioranza del paese». I temi del garantismo lo sono, minoritari, salvo provare il processo «sulla propria pellaccia. Allora capisci tutto». E qui torniamo a Tortora, verso il quale lo indirizza Pannella.

All’inizio Caiazza gli cura le cause per diffamazione, quando il conduttore si mette in testa di querelare tutti i giornali che lo hanno ricoperto di fango. Il collegio di Raffaele della Valle aveva ben altro da fare. E così il giovane avvocato respira «l’aria che si respirava in quella mostruosità che è stato il processo Tortora», e più tardi, assieme al collega Vincenzo Zeno-Zencovic, avvia la causa di responsabilità civile dei magistrati che gli valse anche una denuncia per calunnia. «Lì ho capito che ci sono certe cose in questo paese che non si possono fare, punto».

Chi conosce le battaglie di Gian Domenico Caiazza nei cinque anni alla guida dell’Unione Camere penali capirà bene quanto sia servita la scossa. Nei rapporti con la magistratura, per la quale ha un «rispetto sacrale», salvo quando gli pare di registrare un’anomalia. Ciò che trova imperdonabile è che il giudice, la cui funzione è «la più spaventosa», venga meno al suo dovere di equità. Ecco, qui Caiazza diventa «polemico, perché è una delusione enorme». E comunque meno grande di quella che gli ha dato Carlo Nordio. «Un ministro liberale di cui non ricordo un gesto liberale».

Ma il discorso sarebbe lungo, e noi vogliamo sapere dell’altro. Perché a chiacchierare tra le collezioni di quadri che ci sovrastano ci viene il dubbio di esserci persi qualcosa, un gusto particolare per l’arte o dettagli del genere. Invece scopriamo la passione per il jazz, che prima ha coltivato come un’ossessione, in tutti i circoli, i «più sfigati». E poi niente, il blackout: neanche più un disco. Caiazza è così, bianco o nero. Non si risparmia, e non risparmia neanche gli amici. «Negli scontri so essere anche duro. Quando maturo una convinzione vado avanti come un treno, ma cerco sempre di non mortificare l’interlocutore». Starà pensando a Piercamillo Davigo?...