Mario Landolfi, oggi, potrebbe essere una prima linea del governo di Giorgia Meloni. Non è un’ipotesi fantasiosa. Alla premier va riconosciuto l’impegno nel valorizzare le figure che, negli ultimi trent’anni, hanno scritto la storia della destra, prima in An, poi nel Popolo delle libertà e quindi in Fratelli d’Italia: da Ignazio La Russa ad Alfredo Mantovano fino al ministro delle Imprese Adolfo Urso. A Landolfi – che come gli altri è stato parlamentare di lunghissimo corso e che ha ricoperto anche un incarico di titolare delle Comunicazioni nel Berlusconi III – certamente sarebbe stato attribuito un ruolo importante.

Ma Landolfi è stato schiacciato dal tritacarne giudiziario. E dunque escluso irreparabilmente dalla politica. Con un effetto pietrificante pazzesco: perché le controverse vicende penali dell’ex parlamentare hanno origine da un’indagine della Dda partenopea del 2007, in cui vengono ipotizzate nei suoi confronti le accuse di corruzione e truffa aggravate dall’articolo 7, cioè dal fine di agevolare un’organizzazione mafiosa; una traiettoria che si conclude dopo 15 incredibilmente lunghi anni, il 4 marzo 2023, quando la Cassazione dichiara inammissibile l’ultimo ricorso di Landolfi, e ne rende così definitiva la condanna – che però nel frattempo si era ridotta a 2 anni con sospensione condizionale e col beneficio della mancata menzione nel casellario giudiziario – riferita non a un reato aggravato dall’agevolazione dei casalesi, ma al concorso in corruzione semplice di un consigliere comunale di Mondragone. Quindici anni di vita paralizzata, di carriera politica irreparabilmente distrutta, per una vicenda dal rilievo insignificante rispetto al quadro di partenza.

Ma non sarebbe questa incomprensibile stroncatura l’aspetto più significativo nella storia giudiziaria di Landolfi. A pensarlo è Maurizio Gasparri, altro esponente, nel ventennio berlusconiano, di quel drappello di politici di An, e che tuttora è attivissimo come senatore dell’attuale maggioranza. Ebbene, Gasparri è convinto, come si legge in un’interrogazione rivolta lo scorso 12 ottobre dal parlamentare forzista al guardasigilli Carlo Nordio, che «il tortuoso iter logico- argomentativo seguito dai giudici di 1° grado per emettere la sentenza» nei confronti di Landolfi « abbia come fine esclusivo la preservazione della credibilità del collaboratore di giustizia, impegnato come teste anche in altri processi istruiti dalla procedente Dda, nonostante le vistose falle del suo narrato».

Il teste a cui si riferisce Gasparri è il solo accusatore di Landolfi: si tratta di Giuseppe Valente, lui sì condannato per reati aggravati dal fine di agevolare la camorra ed ex vertice del Ce4, il consorzio costituito dai comuni della provincia di Caserta per gestire lo smaltimento dei rifiuti. Valente è stato un teste importante in processi di ben altro peso, nella cronologia della giustizia antimafia campana, a cominciare da quelli nei confronti di Nicola Cosentino. Ebbene, Gasparri ritiene che dietro la sentenza in cui è sopravvissuta una pur minima imputazione nei confronti di Landolfi vi sia un «obiettivo pro collaboratore di giustizia».

La pronuncia a cui fa riferimento l’interrogazione del parlamentare azzurro è quella con cui Landolfi, il 23 dicembre 2019, è stato condannato in primo grado. Si dirà: perché tutto dovrebbe dipendere da quella sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere se poi l’imputato Landolfi si è opposto fino al ricorso in Cassazione? Perché, come sostiene sempre Gasparri nella propria interrogazione, quella sentenza è stata sì riesaminata in Corte d’appello (a Napoli), ma in modo da confermare, nel 2022, il giudizio precedente «per relationem», cioè senza revisione delle prove. In Cassazione, come detto, non c’è stato alcun giudizio neppure sulla tenuta logica delle motivazioni alla base della condanna iniziale, giacché il ricorso di Landolfi si è infranto sul muro dell’inammissibilità.

Di certo, la tesi di Gasparri è molto pesante, ed è chiaro che solo un parlamentare nell’esercizio del sindacato ispettivo può permettersi di avanzare simili supposizioni nei confronti di un collegio giudicante. È impegnativa, la tesi di Gasparri, tanto più se si considera che, a fine interrogazione, il senatore chiede a Nordio di valutare se sussistano i presupposti per promuovere un’azione disciplinare a carico dei magistrati di Santa Maria Capua Vetere.

E quali sarebbero, per Gasparri, i segni che autorizzerebbero a ipotizzare una condotta dei giudici in contrasto con «gli articoli 27 comma 2 (presunzione d’innocenza) e 111 (giusto processo) della Costituzione» , nonché con il principio della «condanna “oltre ragionevole dubbio” ex art. 533 del Codice di procedura penale»?

Nell’ampia esposizione, il parlamentare di FI cita, fra le altre cose, l’inconsueta sequenza che ha segnato l’ultima fase del processo di primo grado a Landolfi: «La sentenza doveva essere emessa il 18 novembre 2019, ma in quella data, dopo sei ore di camera di consiglio, i giudici del Tribunale disponevano l’escussione ex articolo 507 del collaboratore di giustizia Giuseppe Valente, unico accusatore di Landolfi, nonostante già sentito in precedenza e nonostante l’acquisizione al dibattimento di ben 29 verbali di interrogatorio dallo stesso resi sull’identico tema in altri processi» , ivi incluso quello a Nicola Cosentino.

In effetti, è agli atti che il Tribunale ritenne come nella precedente escussione del pentito ci fossero state «più valutazioni conclusive che fatti puntualmente ripercorsi». Il punto è che i fatti non emersero con puntualità neppure dal nuovo esame del teste, compiuto in aula il 9 dicembre 2019. Anche in quel caso, sostiene Gasparri, le dichiarazioni di Valente furono «contraddittorie», segnate da una serie di frasi del tipo «io questo non lo ricordo e credo di non avergliene parlato», «non escludo di averglielo detto», «sinceramente non me lo ricordo». Insomma, la prova della condotta corruttiva di Landolfi non sarebbe venuta fuori. E secondo Gasparri, sarebbe proprio per questo che, nell’estendere la sentenza, si sarebbe deciso di «ignorare» quelle dichiarazioni e di «sostituirle con altre, provenienti dal processo Cosentino», che però, nelle motivazioni della condanna inflitta a Landolfi, risulterebbero, si afferma nell’interrogazione, «“amputate”».

E allora su cosa si reggerebbe la pur contenuta condanna a 2 anni per concorso materiale nella corruzione, risalente all’anno 2004, dell’ex consigliere mondragonese Massimo Russo? In una frase che la sentenza su Landolfi recupera non dall’esame bis, voluto come detto dagli stessi giudici in via eccezionale (il ricorso all’articolo 507 è molto raro, anche perché tende di fatto a riproporre la logica del giudice istruttore), ma appunto dalla testimonianza resa da Valente in un altro processo, contro Nicola Cosentino, in cui il pentito, si legge nella sentenza su Landolfi, disse «“credo ne avessi parlato anche con Landolfi”», ma dopo aver iniziato il periodo con la frase «no, di questa operazione l’unica persona che era informata era Nicola Cosentino. Ci mancherebbe. Perché in termini politici mi rapportavo direttamente con lui». Insomma, la richiesta a Landolfi di raccomandarsi per favorire Massimo Russo sarebbe, nella stessa dichiarazione, prima esclusa dal pentito e poi riproposta in forma comunque dubitativa. Ed è essenzialmente su questo che si basa una condanna per corruzione a carico di Landolfi ormai passata in giudicato. Una condanna che, col dispiegarsi della vicenda processuale per l’incredibile strazio di 15 lunghissimi anni, è costa all’ex ministro la carriera politica.