Il tribunale di Torino ha assolto un imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia «perché il fatto non sussiste» e lo ha condannato a un anno e sei mesi per le lesioni ai danni dell’ex moglie, avvenute il 28 luglio 2022. Una sentenza come tante altre che però ha scatenato feroci polemiche. Ne parliamo con Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere Penali.

Cosa pensa delle reazioni seguite alla diffusione della decisione del tribunale del capoluogo piemontese?

Direi che è corretto porre al centro delle nostre valutazioni non l’assoluzione, ma proprio le reazioni che hanno fatto seguito alla diffusione mediatica di quella sentenza. Non è certo la prima volta che una motivazione provoca reazioni emotive nel pubblico, accade spesso quando si tratta di reati di genere, ma certamente in questo caso si sono verificati eventi che devono farci riflettere. Non credo sia mai capitato che si raccogliessero in pochi giorni 39.000 firme a favore di una petizione con la quale si chiede la rimozione di un giudice reo di non essersi adeguato a presunti dogmi comunicativi. Non solo si deve punire ma si deve punire secondo un formulario prestabilito. Il fatto che la sospensione condizionale venga subordinata all’esecuzione da parte dell’imputato di un “corso di recupero” ed al pagamento di una provvisionale di 20.000 euro viene eclissata del tutto. Si tratta di sintomi preoccupanti di una giustizia penale del tutto irrazionale promossa “a furor di popolo”.

Come giudica l’iniziativa della presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio di chiedere gli atti del procedimento di Torino e audire il magistrato estensore della sentenza?

Non era mai accaduto che una Commissione parlamentare decidesse di convocare un giudice per rendere conto alla politica della sua decisione: si tratta di un precedente pericolosissimo di fronte al quale mi sembra che solo l’Ucpi abbia lanciato un grido di allarme a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. In un Paese che ogni giorno invoca la separazione dei poteri che significato assume il fatto che un giudice sia chiamato a giustificare davanti al Parlamento il come e il perché dell’esercizio della giurisdizione? È un’idea medievale che finisce con l’azzerare ogni ragionevole e necessario limite all’esercizio delle rispettive legittime funzioni. Quello che sorprende è la posizione possibilista della magistratura associata e il fatto che l’Anm non sia invece insorta.

In merito alla vicenda anche il Pd ha parlato di vittimizzazione secondaria. Si commenta troppo in fretta senza leggere tutta la sentenza, occorre inseguire il paradigma vittimario o è tutto giusto?

La verità è che da tempo le motivazioni delle sentenze hanno smesso di adempiere alla semplice funzione di giustificazione tecnica delle decisioni assumendosi il compito improprio di persuadere il pubblico, di aderire emotivamente ai sentimenti ed alle aspettative del mondo della comunicazione. Questo avviene in entrambi i sensi, sia per indulgere a valutazioni moraleggianti sugli autori dei reati ed a giudizi etici sulla persona del reo, come anche laddove capiti che il giudice si ponga dalla parte dell’imputato: l’errore è il medesimo. Solo che quando si indulge nel “furore bestiale del branco” o nella “indole depravata e insensibile del reo” la cosa passa inosservata in quanto si tratta di uno stile che asseconda lo spirito giustizialista del pubblico, mentre se il giudice dimostra ad un qualsiasi fine adesione psicologica ai sentimenti dell’imputato (“come dargli torto”!) si passa alla gogna.

Il giudice deve porsi il problema di come una sentenza può essere percepita dall’opinione pubblica oppure no? Deve fare attenzione a come la scrive, in pratica?

Certo che il giudice deve fare attenzione. Ma non deve mai equivocare la giustificazione con la ricerca del consenso, la motivazione non deve piacere, non deve mai persuadere il pubblico, non ha quello scopo. La motivazione deve conseguire un obiettivo tecnico. Credo che il problema stia sempre nel fatto che il giudice non deve mai scendere a quel livello di confidenza con la materia che tratta. Ma questo deve valere sempre a prescindere da presunti paradigmi vittimologici o giustificazionisti. Io credo che poi debba necessariamente esistere una linea netta che separa il giudizio dal pubblico. Dove quella linea scompare si mette in crisi lo stesso statuto della civiltà giuridica dell’occidente e dello stato di diritto. Immaginare una giustizia amministrata a mezzo di petizioni, di voto espresso sui social, nella quale non vi è distinzione fra esiti delle decisioni e consenso popolare, sarebbe non solo la fine del processo come lo intendiamo convenzionalmente, ma anche la fine della convivenza civile, si trasformerebbe ogni giudizio in un linciaggio.

Secondo lei gli attacchi ai giudici possono indurli ad assumere in futuro un atteggiamento conformista, meno rischioso rispetto a questioni sensibili?

Senza citare autori come Daniel Kahneman e testi come Rumore, basta dire che i giudici sono esseri umani e come tali soggetti ai più diversi condizionamenti ambientali. La tentazione di operare un adeguamento convenzionale alle esigenze ed alle aspettative del pubblico certamente esiste. Può verificarsi quel fenomeno disfunzionale che in campo sanitario è definito “medicina difensiva”, il giudice potrebbe essere indotto ad assumere le decisioni più confacenti alle aspettative del pubblico anche laddove le evidenze del processo dovessero disattendere l’assunto accusatorio. Si pensi all’uso delle misure cautelari in materia di codice rosso, qui la pressione è evidentemente fortissima, mentre il giudice nei limiti del possibile dovrebbe rimanere indenne da condizionamenti emotivi.

Molto più spesso sono gli avvocati ad essere messi alla gogna per aver difeso il cosiddetto “mostro”. In questo, avvocatura e magistratura dovrebbero combattere la medesima battaglia culturale?

Il difensore vive la propria esperienza professionale nella tutela dei diritti dell’assistito spesso in solitudine, non solo avendo contro l’opinione pubblica, ma anche contrastato dalla pubblica accusa e senza poter confidare in un giudice terzo. Non solo messo alla gogna ma spesso anche minacciato per aver osato assistere il presunto “mostro” autore di reati esecrabili. Pensiamo alle colleghe che vengono insultate e minacciate solo perché hanno osato assumere la difesa di un imputato di reati sessuali. Per poter combattere la medesima battaglia culturale la magistratura requirente dovrebbe disinnescare certi cortocircuiti mass-mediatici che alimentano queste tensioni intorno ai reati di genere, abbassando i toni ed evitando quel clima da scontro del bene contro il male che troppo spesso viene pericolosamente recepita nei circuiti della comunicazione di massa.