“GIUSTIZIA IN CRISI ( SALVO INTESE)”, DEL PRESIDENTE EMERITO

Dopo trent’anni si può essere ancora prigionieri della guerra fra giustizia e politica? Se ne può uscire, per il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, che affida gli auspici, senza risparmiare analisi impietose, al suo ultimo saggio “Giustizia in crisi ( salvo intese). Leggi, giudici, processi e carcere di fronte alla pandemia”.

Uno sguardo in fondo ricco di speranza sul conflitto che trascina con sé i destini della democrazia, avviato dalla “palingenesi” di Mani pulite, da cui è venuto quel mood anticasta che rischia di tramortire l’intero sistema.

GIUSTIZIA E POLITICA

Maramaldeggiare sulla giustizia sarebbe un pelino da vigliacchi. Oggi come oggi significa sparare sulla croce rossa. E per capire com’è che ci siamo arrivati, si dovrebbe risalire molto indietro, fin quasi alla madre di tutte le battaglie perdute dalla Costituzione, cioè alla “mitica” palingenesi di Mani pulite.

Certo è che pochi potrebbero guardare le cose dall’alto della loro autorevolezza, fino a potersi permettere, magari, un’invettiva livida, senza sconti, senza speranze. Giovanni Maria Flick però è un signore sotto ogni punto di vista, e ben se ne guarda. C’è fiducia più che catastrofismo, nel suo ultimo saggio, Giustizia in crisi ( salvo intese). Leggi, giudici, processi e carcere di fronte alla pandemia ( edito da Baldini+ Castoldi, 2020, Milano, 176 pagine). Un consueto — per Flick — atto di benevolenza, di discrezione: lucido, impietoso nell’indicare vizi incancreniti ma affabile nell’ottimismo delle soluzioni. In primis il richiamo alla necessità di «riportare la persona al centro».

Il presidente emerito della Consulta è figura assai cara alla redazione del Dubbio. Grazie alle sue interviste, il nostro giornale può permettersi, da alcuni anni, di anticipare letture dei fatti, in materia di processo, carceri e diritti, con qualche mese di vantaggio sugli altri. La riconoscenza verso Flick è notevole perché è appunto difficilissimo evitare la banalità del giudizio liquidatorio, quando si parla di giustizia: d’altronde il Dubbio è il giornale degli avvocati e non potrebbe permettersi di accarezzare la tentazione del qualunquismo.

Anche perché, in fondo, chi vuol bene alla giustizia e alla democrazia deve per forza essere ottimista. È proprio la cupa tetraggine dello sfascismo forcaiolo ad averci condotti dove siamo. Cioè, come scrive Flick, a una crisi fortissima del giudice e alla perdita di fiducia nella giurisdizione. Che si aggiungono al già consolidato discredito delle istituzioni rappresentative.

IL COLPO GIUDIZIARIO ALLA POLITICA CHE HA MESSO LA GIUSTIZIA IN CRISI

Si deve essere ottimisti perché il pessimismo è il trucco perfido che ci ha portati fin qui. Messo in scena con un dramma in due atti. Prima Mani pulite, e le varie tangentopoli “improvvisamente scoperte” dalle magistrature di quasi tutta Italia, sollecitate dall’esempio milanese. Quindi uno strano intervallo, lunghissimo: il discredito della politica era stato sì completo, ma il fenomeno Berlusconi compì un parziale e temporaneo miracolo, fece infatuare di sé mezza Italia e la sfiducia verso la politica trovò un imprevisto narcotico. Il disgusto venne avvolto in quello che Ferdinando Adornato definì, col solito mix d’intelligenza e sarcasmo, «un fascino da rockstar», che solo il Cavaliere poteva suscitare. Processi e inchieste continuarono ma si diressero in gran percentuale verso il parafulmine di Arcore. Il fatto che lui fosse il bersaglio prediletto dei pm insinuò in quella metà del Paese a lui devota un tale sospetto di faziosità verso le toghe che per un po’ riuscì a beneficiarne l’intera politica. Poi venne Turigliatto: nome che a molti dice nulla ma che costò l’esistenza al secondo governo Prodi. Di fronte alla manciata di senatori che, come il dissidente di Rifondazione, finirono per condizionare i destini di un’intera stagione politica, parte della stampa sparò direttamente contro il sistema politico, contro “la casta”. Il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella nacque da lì. E da quel libro venne la virulenza dei primi vaffa di Beppe Grillo. Quindi una nuova terribile stagione di discredito per la politica consumata a colpi d’inchieste.

Bassolino, Penati, Guidi, Errani, Del Turco, fino a casi più recenti come De Girolamo. Un tritacarne disumano, carburante dell’antipolitica, veicolo di una tesi devastante: il Parlamento è un covo, non un tempio, e bisogna sbarazzarsene. Quando si parla dell’incrocio fra giustizia e politica si parla di questo. La fine della democrazia per come la conosciamo.

IL DUBBIO, RELIGIONE LAICA CHE PUÒ SALVARE LA DEMOCRAZIA

Nel saggio di Flick la minaccia di un disincanto distruttivo incombe pur senza essere sempre evocata. Si evita di tenerla di continuo al centro dell’inquadratura, si rinuncia a dettagli e dovizia di nomi: la personalizzazione è una cosa che al professore, presidente emerito, ed ex guardasigilli, piace poco. Nomi ne fa quasi mai, se non quando inevitabile. Però all’inizio del primo capitolo, che assimila onomasticamente il saggio di Flick a questo giornale, “Dal dubbio alla certezza: o viceversa?”, si evoca un’osmosi perniciosa. «La fiducia nella legge come unica fonte delle regole e la sfiducia nel giudice sono anche esse via via venute meno per molteplici ragioni», tra le quali innanzitutto i «problemi interni alla funzionalità e rappresentatività dei parlamenti». E qui il cerchio terribile dell’anticasta si chiude nel più paradossale dei modi.

In quel passaggio d’altra parte Flick spiega come mai sia passato dall’ardore per la certezza vissuto nella prima fase della propria vicenda di giurista fino alla cultura del dubbio, come rivoluzione dell’analisi permanente, del risvolto prospettico di ogni accertamento, processuale o politico che sia. E in fondo già l’invito a coltivare il dubbio con meno esitazioni di quanto sia successo a lui è una prima induzione all’ottimismo. Il dubbio serve anche a sdrammatizzare, ad esempio. A smetterla con la religione dell’anticasta. Se a ogni indagine su un politico è lecito dubitare della colpevolezza, e se persino di fronte a una sentenza definitiva si deve assumere il dubbio come approccio necessario in vista di possibili revisioni, anche quell’ansia nata dal doppio colpo di Mani pulite e della caduta di Prodi potrebbe in futuro vedersi superata. Si potrà forse, con la pazienza e la fiducia, ricomporre la vera frattura, che è innanzitutto fra cittadini e istituzioni, e con essa anche la crisi della giustizia.

IL DISINCANTO CHE CORRODE PERSINO MAGISTRATI E AVVOCATURA

Certo, i segnali di una notevole e diffusa resistenza possono anche fiaccare l’apertura dello sguardo. Ad esempio, persino tra i magistrati la disillusione si è fatta strada e ha assunto sembianze analoghe all’antipolitica. «Il riflesso prevalente nella magistratura associata non sembra quello di rivendicare il pur prezioso pluralismo delle correnti, ma di infliggere censure sbrigative. Un atteggiamento», scrive Flick, che «è anche la conseguenza del deserto di autorevolezza lasciato dalla politica». L delegittimazione di qualsiasi centro di potere o anche solo di influenza è indiscriminata. È una sorta di incendio, che annulla la fiducia in tutto, in ciò attorno a cui ruota la nostra stessa vita.

E il propagarsi ha un effetto imprevedibile.

Tocca anche la dignità dell’avvocato, di cui pure il presidente emerito della Corte costituzionale si occupa. Lo fa nella parte del libro dedicato alle relazioni “multilevel” tra le giurisdizioni, interne e internazionali. Tra regole dettate da fonti primarie, pronunce della Consulta, interazioni fra giudice delle leggi e Corti europee, diventa così impegnativa la ricerca del diritto vigente ( figurarsi quello vivente), che ne dovrebbe derivare almeno «una maggiore dignità anche nella condizione economica dell’avvocato». Non è così, Flick lo sa bene, e anzi la globalizzazione del lavoro intellettuale, la sua dispersione, la precoce corsa a liberalizzare per prime le attività delle categorie ordinistiche, hanno schiacciato la professione forense nella prospettiva della concorrenza innalzata a nuovo idolo. A pensarci bene, anche l’avvocatura, come le altre libere professioni con cui il saggio di Flick auspica un’alleanza, viene indebolita dall’ostilità collettiva verso ogni presidio. Certo il difensore soffre di tale tensione, dello sguardo obliquo verso l’anticasta, intesa ormai come forma di pensiero, anche perché osa assicurare il diritto a chi è accusato dei reati più odiosi. Ma non c’è solo questo riflesso, c’è in generale la diffidenza verso chiunque detenga una qualche prerogativa speciale. Che si tratti del deputato eletto per approvare le leggi o dell’avvocato che assicura il diritto di cui all’articolo 24 della Costituzione.

UNA VIA D’USCITA UMANISTICA DALLA GUERRA DEI TRENT’ANNI

Come si esce dalla cultura del sospetto verso chiunque eserciti funzioni democratiche? Forse si deve partire da una delle definizioni più belle del libro, riportata da Flick per dare valore al metodo del dubbio: che non è nevrotico amletismo, si tratta piuttosto «del ragionevole dubbio, dell’umiltà di cercare la legge vivente più che quella vigente; di muovere dal diritto per come vive più che per come dovrebbe vivere». È legittimo avere fede nella legge, ma secondo i limiti che Flick si premura di raccomandare in tutto il libro. Soprattutto, è giusto oltre che legittimo, avere un sano laicismo verso la giustizia come verso la politica, non metterle in conflitto fra loro, non chiedere alla prima di essere fustigatrice della seconda. È necessario accettare gli errori della giustizia penale anche quando il bersaglio indebitamente colpito era un uomo delle istituzioni, È necessario e utile, in ultima analisi, guardare al futuro come a un’esperienza partecipata, senza l’attesa per una vendetta permanente.

Nella dialettica fatale e irreparabile, quella iniziata con le inchieste del ’ 92 fra magistratura e politica, la svolta consisterebbe, d’altra parte, anche in una politica capace di rassegnarsi a non poter «ricomprendere tutto nella legge, in modo tale che l’intervento del giudice sia solo un automatismo e non abbia alcuno spazio di discrezionalità. La tentazione», secondo l’autore di Giustizia in crisi, nasce dal simulacro di quella «giustizia dell’algoritmo, nella quale non ci dovrebbe essere più bisogno del giudice, perché ci si illude che basterà introdurre nel computer le coordinate giuste ( quali?) per ottenere il risultato. È evidente il contrasto con la Costituzione, che ha come profilo fondamentale la difesa dell’identità, della pari dignità e della personalità di ciascuno di fronte all’ondata montante degli effetti patologici della globalizzazione».

Ci mancherebbe solo la scomparsa del processo in favore di un software. Non si può restare indifferenti alla chiusura di tutte le agorà, con la sopravvivenza dei soli social, luogo però in cui ci si trincera nelle proprie convinzioni pregresse, piuttosto che scambiare chiacchiere con chi la pensa diversamente.

E si torna sempre alla democrazia intesa come partecipazione, il solo modo perché possa compiersi l’esito umanistico prefigurato da Flick rispetto alla crisi della giustizia. Serve persino un ritorno dei cittadini ai partiti, a quei partiti infangati dalla prima eruzione del cataclisma, sempre Mani pulite. Solo l’aggregazione del partito può essere carburante della democrazia intesa come comunità che si autodetermina. Solo se la politica non sarà più infame impostura, solo se non sarà più considerata come un «colpevole che l’ha fatta franca», pure la giustizia ritroverà il suo equilibrio. La sua veste, cioè, di accertamento del fatto secondo le regole del processo, senza più pretese di farne il lavacro della democrazia.

LA VIA UMANISTICA INVOCATA DAL PRESIDENTE EMERITO DELLA CONSULTA

NEL SUO LIBRO FLICK CHIEDE DI «RIMETTERE LA PERSONA AL CENTRO». DEL PROCESSO, DELLA LEGGE, DELLA VISIONE DEL GIUDICE, DELL’ESECUZIONE PENALE. UNA PACIFICAZIONE, UN APPRODO UMANISTICO CHE CI AFFRANCHI DAL CONFLITTO FRA GIUSTIZIA E POLITICA. DA QUELLA TENSIONE DIVENUTA UN INCENDIO, ANCORA NON DOMATO DOPO TRENT’ANNI.

UN INCENDIO IN CUI PUÒ BRUCIARE LA STESSA DEMOCRAZIA

SE PERSINO L’AVVOCATO DIVENTA BERSAGLIO DEL MOOD ANTICASTA

DALLA COMPLESSITÀ “MULTILEVEL” DELLE RELAZIONI FRA CORTI NAZIONALI E INTERNAZIONALI, DOVREBBE ALMENO DERIVARE «UNA MAGGIORE DIGNITÀ ANCHE NELLA CONDIZIONE ECONOMICA DELL’AVVOCATO». PERSINO VERSO LA PROFESSIONE FORENSE, INVECE, SI DIRIGE LO SGUARDO OBLIQUO E DIFFIDENTE DEL MOOD ANTICASTA. OGNI PRESIDIO DI DEMOCRAZIA DIVENTA UN’IMPOSTURA