La procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’accusa di aiuto al suicidio nei confronti di Marco Cappato, rappresentante legale dell’Associazione Soccorso Civile e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. Cappato aveva accompagnato in Svizzera Elena Altamira, lo scorso agosto, e Romano, lo scorso novembre, e si era poi autodenunciato.

Secondo i pubblici ministeri, Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, la condotta di Cappato non è punibile in base a una “lettura costituzionalmente orientata” e il suo aiuto alla morte volontaria di Elena e Romano non viola “il bene giuridico” protetto dell’articolo 580 del codice penale ma “anzi consente il concreto esercizio all’autodeterminazione”. Il 580 è un vecchio articolo che norma l’istigazione e l’aiuto al suicidio ed è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” (è la sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale). Insomma, aiutare qualcuno a morire non è più un reato in determinate circostanze.

Il requisito del trattamento di sostegno vitale è quello più ambiguo e contestabile, e la sua interpretazione costituzionalmente orientata è alla base della richiesta di archiviazione. Che cosa significa “trattamento di sostegno vitale”? Lo possiamo intendere come un sostegno meccanico (come un respiratore artificiale) oppure in un senso più allargato, includendo così anche qualsiasi trattamento farmacologico e assistenziale? Siciliano e Gaglio suggeriscono la seconda interpretazione e offrono delle ragioni molto convincenti. Richiamano anche precedenti interpretazioni in questo senso, come quella della corte d’assise di Massa (sostegno vitale è un qualsiasi trattamento sanitario la cui interruzione provocherebbe, anche al lungo termine, la morte), della corte d’appello di Genova (anche un “farmaco di significato vitale”) e della procura della repubblica di Bologna (qui si sottolinea un punto fondamentale: l’interpretazione più morbida non è soltanto quella corretta, ma è costituzionalmente doverosa perché evita disparità di trattamento tra le persone, tra chi ha già un qualche tipo di sostegno vitale e chi non ancora).

Nella richiesta ci sono molti passaggi interessanti e utili per una corretta valutazione dell’aiuto fornito da Cappato e più in generale di cosa è possibile oggi fare nel dominio delle scelte di fine vita. I due pubblici ministeri ricordano anche l’ordinanza della Corte del 24 ottobre 2018 in cui si rileva la frizione tra il 580 e la libertà di ogni malato di scegliere le terapie “comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenza” in base agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e si invita il legislatore a individuare un bilanciamento tra questa libertà e la tutela della vita umana. Ma il legislatore è stato “insensibile all’ammonimento della Corte e non è intervenuto”. Quella libertà non è solo in positivo, ma pure in negativo, ovvero abbiamo il diritto di negare il consenso a qualsiasi trattamento – così come anche esplicitamente riaffermato nella legge del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento. La centralità del consenso deve essere presa sul serio e deve comprendere anche la possibilità di un dissenso.

D’altra parte l’articolo 580 risale al 1930 e il legislatore di allora aveva un atteggiamento paternalistico forte, cioè volto a tutelare la vita “contro qualsiasi scelta che potesse andare a suo danno”. Insomma, la libertà non era molto considerata ma da allora molte cose sono cambiate. A partire proprio dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione che hanno stabilito l’importanza della nostra volontà e della nostra possibilità di autodeterminarci.

La verifica delle prime tre condizioni indicate dalla 242 è abbastanza facile: Elena e Romano erano perfettamente capaci di intendere e di volere, avevano una patologia irreversibile e questa causava loro sofferenza fisiche e psichiche intollerabili. La quarta, come ho già detto, ha richiesto invece uno sforzo definitorio meritevole e chiarificatore. Il punto di partenza non può che essere una definizione medica: un trattamento che non ha una “funzione curativa ma di sostituzione transitoria o permanente di una funzione d’organo compromessa, allo scopo di mantenere in vita il paziente” e la cui sospensione “determina necessariamente la morte del paziente in un tempo più o meno lungo”.

È irragionevole e discriminatorio trattare diversamente persone con patologie inguaribili sulla base dei diversi trattamenti, perché questi sono fattori accidentali e non è giusto trattare diversamente i malati terminali. Inoltre i sostegni medici, in alcune circostanze, possono solo offrire un rallentamento e non l’impedimento della morte. C’è poi sempre la questione del consenso, e sia Elena sia Romano avrebbero rifiutato i sostegni vitali, “com’era loro diritto fare”, e sarebbero morti in un modo per loro non accettabile. La definizione più corretta di sostegno vitale è dunque “tutti quei trattamenti sanitari la cui interruzione porterebbe, anche a lungo termine, alla morte del paziente”. Se il giudice per le indagini preliminari rifiuterà questa interpretazione, l’unica strada sarà quella di rimettere gli atti alla Corte costituzionale. Intanto, la richiesta di archiviazione è una impeccabile ricostruzione del quadro normativo e una lettura utilissima.