«Indignato, sbigottito e annichilito». Così Claudio Salvia ha reagito alla riedizione della fiction “Il camorrista”, realizzata nel 1986 da un giovane Giuseppe Tornatore che tornerà presto sugli schermi di Canale 5 in versione lunga e restaurata. La serie racconta la parabola di Raffaele Cutolo, lo spietato boss della Nuova camorra organizzata (Nco), un’organizzazione che ha ucciso migliaia di persone tra cui Giuseppe Salvia, padre di Claudio e vicedirettore del carcere di Poggioreale, freddato il 14 aprile 1981 in un agguato sulla tangenziale di Napoli.

Nell’intervista intervista rilasciata a Repubblica, Salvia, che oggi è uno stimato funzionario del ministero dell’Interno, non trattiene la delusione e il dolore per la scelta di Mediaset: «Cutolo è stato il boss per eccellenza, ha distrutto intere famiglie e frantumato, letteralmente, la vita di centinaia di innocenti. Perché riportare alla luce un tale carnefice e non raccontare il coraggio e l’integrità di tanti uomini dello Stato che hanno pagato con la vita i principi di rettitudine e legalità?».

Parole comprensibili per chi ha visto profanare la propria vita dalla violenza camorrista e mai potrà leggere quella vicenda se non attraverso il filtro della propria memoria offesa; quella sofferenza, quel tormento sono sentimenti intangibili che meritano un rispetto assoluto. Durante le riprese Tornatore venne minacciato da Cutolo in persona che, con il linguaggio obliquo tipico delle cosche, si lamento del fatto che il film fosse «girato da un siciliano», messaggio chiarissimo. Per questo il regista non ci sta a passare per un agiografo del boss: «Non posso accettare che la mia serie sia un insulto alle vittime della camorra, nessuno può dirlo», ha replicato.

È una contraddizione insanabile: da una parte lo strazio di chi ha subito un terribile lutto e il diritto a esprimere pubblicamente il proprio disagio, dall’altra la libertà di raccontare le vicende più cupe della nostra storia anche attraverso gli occhi dei “cattivi”. Con i quali il cinema mantiene da sempre un costante rapporto di ambiguità, facendone i protagonisti della scena, mostrandone anche i lati umani e informali, giocando sull’inevitabile identificazione degli spettatori pur mantenendo ferma la condanna morale. Pensiamo ai tanti film sui mafiosi italo-americani interpretati da attoria amatissimi dal pubblico come Marlon Brando, Robert De Niro, Al Pacino, che mostrano dal di dentro l’epica criminale, le loro balorde carriere, le ambizioni sfrenate, le irresistibili ascese e l’ineluttabile caduta, personaggi shakespeariani che hanno costruito il nostro immaginario e a cui siamo affezionati nonostante tutto il male che hanno provocato.

Recentemente ha creato aspre polemiche Dahmer, la serie Netflix diretta da Ryan Murphy e consacrata al “mostro del Milwaukee”, lo psicopatico serial killer che tra il 1978 e il 1991 uccise con metodi atroci 17 ragazzi, quasi tutti omosessuali e appartenenti a minoranze etniche. Interpretata da uno straordinario Evan Peters, Dahmer è stata una delle serie più viste di sempre sulla piattaforma streaming e ha profondamente scioccato i parenti delle vittime che hanno accusato Netflix di “pornografia del dolore” e di rendere l’assassino un personaggio affascinante e complesso. «Hanno creato un spettacolo sulla nostra tragedia e lo hanno fatto per pura avidità» tuonò Rita Isabell, sorella di uno dei ragazzi torturati e assassinati.

Per tornare in Italia e sempre sulla figura di Cutolo è difficile non pensare a Don Raffaè, la canzone di Fabrizio De André in cui il boss della Nuova camorra organizzata viene descritto in modo sarcastico come «un uomo geniale che parla co' me». Il brano, che uscì nel 1990 sull’album Novecento non suscitò particolari polemiche, anche perché lo stesso De André ci tenne a spiegare, in modo forse un po’ democristiano, che il vero protagonista della sua canzone non era tanto Raffaele Cutolo ma Pasquale Cafiero, brigadiere del corpo di polizia penitenziaria del carcere napoletano di Poggioreale.