Approfittando dell’inesistente “scandalo” di una commissione Antimafia – eterodiretta da Mario Mori per coprire chissà quale “indicibile” verità – il magistrato Nino Di Matteo, della Procura nazionale antimafia, intervistato da Il Fatto, accusa l’attuale presidente Chiara Colosimo di non voler indagare sulla memoria depositata dal senatore Roberto Scarpinato. Dimentica però che tutte le commissioni precedenti, compresa quella del centrodestra guidata da Giuseppe Pisanu, hanno inseguito le tesi poi naufragate dei pm di Palermo dell’epoca, tra cui lo stesso Di Matteo. Oggi si pretende di riesumare la “pista nera”, il coinvolgimento delle “donne bionde” e ogni sfumatura dei teoremi trattativisti, già analizzati dalla commissione pentastellata presieduta da Nicola Morra. Quanto a mafia-appalti – tema dotato di solida dignità processuale – manca invece ancora un approfondimento capillare.

Quando Di Matteo sostiene che si voglia evitare di collegare tutte le stragi, da Capaci alle continentali del 1993, dimentica che Borsellino era convinto dell’esistenza di un filo unico, riconducibile agli appalti, dietro delitti eccellenti come quelli di Salvo Lima e Giovanni Falcone. Ma non basta: non tutto è ancora stato scoperto. Forse anche Di Matteo, essendo della Procura nazionale, potrebbe dare nuovi impulsi alla Procura di Caltanissetta, oggi al lavoro sull’indagine nonostante un ostruzionismo senza precedenti. Mancano tasselli fondamentali che rischiano di restare oscurati dai teoremi che M5S e Pd intendono riproporre in commissione e che hanno già fatto perdere decenni di tempo e risorse. E sembra che ci sia la volontà di sprecarne ancora.

Ebbene, ora emerge un fatto inedito. Tutti i vertici di Cosa Nostra – da Matteo Messina Denaro a Bernardo Provenzano, a cavallo tra la strage di via D’Amelio e quelle di Firenze, Milano e Roma – si sono riuniti non per discutere presunti patti con i neofascisti, Dell’Utri o entità astratte, ma per affrontare il problema degli appalti. Un verbale lo attesta. Non eravamo solo in piena tangentopoli: era anche il momento in cui, con grande ritardo, si stavano riesumando gli elementi di collegamento tra mafiosi-imprenditori e grandi gruppi industriali. Peccato che allora non si sia riusciti a raccordare l’indagine siciliana con quella di Antonio Di Pietro. Da chi lo veniamo a sapere per la prima volta, almeno pubblicamente? Per oltre trent’anni l’attenzione mediatica e giudiziaria sulle stragi del 1992 si è concentrata quasi esclusivamente su teorie astratte, trascurando un aspetto fondamentale: su cosa stesse realmente indagando Paolo Borsellino nei suoi ultimi giorni di vita.

Vincenzo Ceruso, con rigore metodologico e una scrupolosa analisi documentale – arricchita da testimonianze e informative inedite – ha colmato questa lacuna nel libro “Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio” (edizione San Paolo). Scartabellando carte e intervistando valorosi investigatori dell’epoca, ha scoperto che, mentre Borsellino annodava gli ultimi fili, era in corso un’importante indagine condotta dall’allora giovane capitano Sandro Sandulli, nominato pochi mesi prima comandante della compagnia di Sciacca, in provincia di Agrigento. L’inchiesta, battezzata “informativa Avana”, è sostanzialmente un mafia-appalti in miniatura: nata da un omicidio mafioso, mette in luce l’intreccio tra Totò Riina e le grandi imprese nazionali. Come racconta Ceruso, il meccanismo illecito di assegnazione dei lavori era già così definito che Sandulli, consegnando la sua informativa nel maggio 1993, aveva ricevuto il testo del dossier mafia-appalti e ne riportava ampi stralci come riscontro. Altro che “pallido” dossier.

Già nell’aprile ’92 il capitano Sandulli – tramite le intercettazioni - aveva individuato il ruolo di Giuseppe Montalbano e, per ricostruirne il profilo, aveva ripreso le carte del maxiprocesso di Falcone e Borsellino. E quelle dell’indagine avviata negli anni ’80 da Falcone stesso, che indicavano Montalbano come titolare di Arezzo Costruzioni S.r.l., fondata a Palermo nel 1980. Stiamo parlando dello stesso Montalbano – membro dell’apparato del Partito comunista siciliano e proprietario del “covo” di Riina in via Bernini – per il quale, nonostante i suoi forti legami con Pino Lipari e le rivelazioni del pentito Baldassarre Di Maggio (rivelò che disponeva di un altro alloggio per Riina e proteggeva altri boss mafiosi), fu chiesta archiviazione dalla Procura di Palermo nel 1995. Giuseppe Montalbano verrà anni dopo arrestato e condannato definitivamente dalla procura di Sciacca.

Ma torniamo alle intercettazioni di aprile 1992 effettuate dal capitano Sandulli, in cui individua già Montalbano e le questioni relative agli appalti. Borsellino ne era a conoscenza? La risposta non può che essere affermativa. Come spiega Ceruso nel libro, il capitano si relazionava in particolare con la dottoressa Mariateresa Principato – ex moglie di Scarpinato – della Procura di Palermo, titolare delle indagini. Non c’è alcun dubbio, visto il continuo scambio di notizie, che Borsellino fosse informato, soprattutto perché coordinava i procedimenti sulle indagini di Trapani e Agrigento. Come ricorda Sandulli all’autore, i magistrati venivano man mano avvisati del contenuto delle intercettazioni: Pino Lipari, Giuseppe Montalbano, persino Matteo Messina Denaro, altri boss mafiosi e imprese multinazionali emersero nel corso delle indagini.

Ma ora veniamo alle stragi. Nel libro La toga, la fede, il coraggio (San Paolo), Vincenzo Ceruso, leggendo l’informativa “Avana”, scopre un passaggio che riporta con chiarezza una riunione del gotha di Cosa Nostra. Cosa apprende? Siamo a febbraio 1993. Quindi tra le stragi di Via D’Amelio e quelle continentali. Due partecipanti – uno ex direttore di banca, l’altro oscuro personaggio – rivestivano ruoli chiave nei mandamenti principali della provincia agrigentina, territorio strategico per l’organizzazione mafiosa. I boss si stavano recando a un summit convocato a Palermo, con i vertici di tutte le province siciliane, compreso Matteo Messina Denaro. Il pentito Santino Di Matteo, tra gli esecutori della strage di Capaci, dichiarerà in seguito che la riunione era convocata per discutere degli appalti. L’autore non è riuscito a reperire il verbale. Forse la commissione Antimafia, se non verrà abbattuta, potrebbe farlo.

Ritornando al magistrato Nino Di Matteo: è vero che tutto è collegato. Il metodo Falcone puntava proprio a questo – ogni omicidio mafioso, per quanto apparentemente “insignificante”, gara d’appalto pilotata, guerre tra faide (tramite la Stidda, come apprendiamo da Ceruso) e stragi eclatanti vanno lette come un unico disegno. Ma non con il mantra “oltre la mafia”. Dietro questo approccio mediatico-giudiziario, sostenuto da una nutrita schiera di “professionisti dell’antimafia”, si nasconde una visione che non ha mai esplorato a fondo ciò che Paolo Borsellino stava studiando con tenacia: Vincenzo Ceruso ha riportato alla luce quei filoni investigativi, frammento per frammento.

Dopo la strage di Capaci, Borsellino decise di ripartire dal dossier mafia-appalti, rileggendo omicidi precedenti, vecchie indagini e i faldoni del maxiprocesso istruito da lui e Falcone. Tornano con forza nomi mafiosi, aziende in odor di mafia, consorzi e cosche – come i catanesi – che ancora oggi restano troppo ignorati, nonostante il loro ruolo in grandi appalti e stragi. Chi teme di bloccare tutto questo? Perché questa potenza di fuoco, supportata da intercettazioni segrete, vuole mettere a tacere chi vorrebbe scavare fino in fondo?