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SENATO, AULA, RIFORMA DELLA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE DELLA MAGISTRATURA E IL DDL CHE INTRODUCE IL REATO DI FEMMINICIDIO, TABELLONE RISULTATI
La morte di Pamela Genini per mano del compagno che voleva lasciare, Gianluca Soncin, ci porta a chiedere: a questo punto davvero leggi più repressive servono a deflazionare certi atti criminosi? Lo abbiamo chiesto ad una politica, ad una magistrata, ad una avvocata e ad una accademica.
Per la senatrice di Fratelli d’Italia, Susanna Donatella Campione, «leggi più severe non servono a prevenire il fenomeno ma hanno la funzione di conferire alla condotta violenta un particolare disvalore sociale. Siamo consapevoli che l’ultimo problema dell’uomo violento sia la sanzione nella quale incorre e tuttavia non si può rinunciare a punire severamente tali condotte». Per la parlamentare, infine, «altro piano è quello della prevenzione che nella legislazione che abbiamo introdotto ha un ruolo primario sebbene richieda tempi lunghi per dare risultati. Certamente la denuncia tempestiva è lo strumento principe per impedire che i comportamenti violenti si aggravino fino all’esito letale».
Secondo Rachele Monfredi, presidente della commissione Pari opportunità dell’Anm, «neppure una risposta sanzionatoria che sia al contempo certa e severa servirà a contenere il fenomeno, senza un massiccio sforzo sul piano culturale e politico che vada alla radice del problema». Per Monfredi, «la violenza di genere affonda le sue radici nell’atavica disparità che caratterizza i rapporti di forza tra uomini e donne, ancora caratterizzati (nonostante le tante conquiste) dalla logica del dominio e della sopraffazione, invece che da quella del rispetto e della parità». «È la stessa logica - conclude la magistrata di Magistratura democratica - che sta alla base dello sfruttamento della potenza generatrice della terra e va ribaltata, attraverso un incessante e capillare lavoro di sensibilizzazione educativa nelle diverse articolazioni della società (nessuna esclusa) e attraverso interventi normativi che incidano concretamente sul piano sociale, sostenendo le donne in difficoltà ed aiutandole ad affrancarsi dalla propria condizione di soggezione non solo dopo le denunce, ma molto prima».
«Come è noto – ci ricorda invece Giulia Boccassi, vice presidente Unione Camere penali – la Convenzione di Istanbul è la pietra miliare in tema di contrasto alla violenza di genere e in essa vengono individuate le famose 4 P come obiettivi per sconfiggere questo gravissimo fenomeno che affligge la nostra società. La P di prevenzione, la P di protezione e la P di punizione e la P di politiche integrate per un percorso di autonomia delle donne». Il ddl sul femminicidio dovrebbe dunque inserirsi «in questo piano di attuazione delle linee guida dettate dalla Convenzione di Istanbul, anche se in verità si concentra prevalentemente sulla P di punizione, trascurando le altre. Cedere infatti all’idea di un sistema penale legato ad una legislazione inutilmente ed eccessivamente punitiva – conclude la penalista – non produce alcun efficace risultato in termini di contrasto e di deterrenza alla violenza di genere che vede le donne vittime per elezione. È infatti un dato di realtà che il processo penale e le sue pene non funzionano mai come deterrente, nemmeno rispetto ai reati più gravi. Scommettere sulla punizione piuttosto che sulla prevenzione e sulla protezione ha certamente un valore propagandistico e di bandiera, efficace sul piano mediatico, ma totalmente fallimentare sul piano pratico».
Infine il commento di Antonella Marandola, ordinario di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi del Sannio: «Negli anni, il legislatore ha fornito, sempre più, alle forze dell’ordine e all’autorità gli strumenti per fare fronte a tali comportamenti e condotte illecite e la stessa magistratura si è dimostrata capace di fronteggiare quello che non è più un fenomeno emergenziale, ma una grave piaga endemica del nostro Paese».
Come ci ricordano, in ogni occasione, «la Cedu e la stessa Corte costituzionale, è infatti compito del legislatore, prima, e delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria, poi, assolvere a tale impegno ogniqualvolta la vittima si sia rivolta ad esse. Ecco il nodo della questione: purtroppo nel caso di Milano non risultano denunce e, molto spesso si ritiene che la legge non abbia funzionato quando, in verità, non è mai stata presentata una denuncia. Del pari, la questione non è quella legata alla capacità repressiva o meno della nostra legislazione a “contenere” tali reati».
Per la professoressa «la nostra disciplina in materia è indubbiamente una delle più complete (attivazione immediata delle indagini, misure di prevenzione, misure cautelari, attività trattamentali per l’autore del fatto, informazioni alla persona offesa, gratuito patrocinio indipendentemente dal reddito della vittima), ma quello penal-processuale rappresenta solo uno dei tanti tasselli, purtroppo, l’ultimo di un fenomeno complesso su quale occorrerebbe investire di più portando a conoscenza delle donne i tanti strumenti che la legge gli fornisce e dall’altro, oltre allo studio del fenomeno sociale della violenza di genere, occorre un intervento strutturale per una formazione culturale e sociale che consenta di radicare nella nostra società il valore della persona in quanto tale, delle sua libertà e dei suoi diritti».