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PALAZZO DELLA CONSULTA CORTE COSTITUZIONALE
“Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”. È l’articolo 579 del codice penale, omicidio del consenziente. È l’articolo che vieta l’eutanasia anche se non parla di eutanasia (erano gli anni Trenta del secolo scorso, d’altra parte, e già questo basterebbe).
Ora i giudici della Corte costituzionale dovranno decidere se è incostituzionale questo non distinguere volontà e condizioni, consensi e codici Rocco. Cioè: se io ho tutte le condizioni previste dalla sentenza 242 del 2019 (quella che ha stabilito le condizioni di accesso al suicidio assistito) ma non posso proprio muovermi e quindi assumere da sola il farmaco o spingere il pulsante di un qualche attrezzo che mi somministri il farmaco, che diritti ho? È giusto che la mia immobilità mi tolga una libertà?
Faccio un esempio più scemo: ho il diritto di uscire all’ora che voglio e per andare dove mi pare. Se non posso camminare o spostarmi da sola, è forse sensato rivedere quella libertà di uscire all’ora che voglio e per andare dove mi pare? Dovremmo sempre ricordare la differenza tra capacità e diritti e non usare una capacità ridotta per eliminare o restringere un diritto. Come siamo arrivati in Corte sul 579?
“Libera” ha la sclerosi da moltissimi anni e ormai è completamente immobile. Provate a immaginarlo. Non può camminare, non può grattarsi una puntura di zanzara, non può allungare un braccio per prendere un bicchiere e bere. Provate a immaginarlo. Ha difficoltà a deglutire. Provate a immaginarlo. Più di un anno fa “Libera” ha chiesto alla sua ASL di verificare se aveva tutte le condizioni previste dalla 242 per il suicidio assistito: il proposito di suicidio deve essere “autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Dopo vari rifiuti, diffide e solleciti (Libera è assistita dal gruppo legale coordinato da Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni) e dopo la sentenza 135 del 2024 che ha chiarito i confini del requisito del trattamento di sostegno vitale, la ASL finalmente ha considerato (correttamente) il rifiuto della PEG da parte di Libera e la necessità di una continua assistenza come trattamenti di sostegno vitale. Tutto bene quindi? No, perché mancavano ancora le indicazioni del farmaco e delle modalità di somministrazione. Mesi e mesi e nemmeno il ruolo del servizio sanitario è chiaro. Ma il problema principale, quello che ha portato fino alla Corte stamattina, è un altro: vista l’immobilità di Libera, come può autosomministrarsi il farmaco?
La ASL, lo scorso marzo, ha detto che non ci sono macchinari per la somministrazione. E quindi? Che fine fa il diritto di Libera? Se manca uno strumento materiale per esercitare il mio diritto, che faccio? Che facciamo? Dopo un ricorso d’urgenza, il tribunale di Firenze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Al di là dei particolare normativi e del lungo percorso burocratico ed esasperante (del tempo che ci vuole parliamo un’altra volta), la domanda mi pare semplice: può la mia immobilità cambiare tanto profondamente la possibilità di scegliere di morire? Può una differenza tecnica e irrilevante dal punto di vista morale (e dovrebbe essere irrilevante anche dal punto di vista normativo) svuotare un diritto?
Il diritto alla vita è la premessa di tutti gli altri, certo. Ma quel diritto non può essere congelato nell’assenza del suo negativo. E se ho quel diritto, dovrei avere la possibilità di scegliere. Cercare di impedirmelo in base alla mia impossibilità di camminare o di spostare un braccio è insensato e ingiusto. Chissà cosa decideranno i giudici. Chissà se giudicheranno ingiusto questo divieto assoluto e che non fa differenza tra volontà e condizioni, tra consensi e codici Rocco.
Nel frattempo, lo scomposto disegno di legge uscito dalla mente del legislatore è talmente disperante da essere comico. È talmente sciatto e beghino da far sembrare Renzo Pegoraro, il nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, un illuminato rinascimentale. Soprattutto quando ricorda che bisognerebbe conoscere e parlare con le persone malate. Che non basta, ovviamente, ma che mi pare essere un pezzo importante.
In questa era di identitarismo feroce e in cui i traumi sono traumi anche se riguardano le doppie punte, il legislatore pensa bene di scrivere che se chiedi la verifica della condizioni e ti rifiutano devi aspettare 4 anni. Poi hanno cambiato in alcuni mesi, ma certe cose non dovrebbero essere nemmeno pensate, figuriamoci comparire in un disegno di legge. Quattro anni. Mi piacerebbe moltissimo sapere a chi è venuto in mente. Come strategia dissuasiva è favolosa. Meglio di Corrado Guzzanti in Padre Pizarro quando consigliava a chi voleva abortire di tornare tra 9 mesi.