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Deposizione al processo di Brescia che vede imputato l’ex pm Mani Pulite per aver diffuso i verbali Amara
«Davigo non dimostrò alcun particolare interesse» nei confronti di Ardita, «entrambe le volte che ci siamo visti non ha mai fatto il suo nome». È uno dei passaggi più importanti della deposizione del pm di Milano Paolo Storari al processo di Brescia che vede Piercamillo Davigo imputato per aver diffuso i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla loggia Ungheria. Un lungo esame quello di Storari, che si commuove più volte descrivendo il clima - a suo dire ostile - che ha caratterizzato gli ultimi due anni in procura a Milano, dove per lungo tempo i vertici dell’ufficio non avrebbero voluto approfondire le dichiarazioni sulla loggia. «Ricordare quello che ho passato è pesante», dice, parlando di un vero e proprio «muro di gomma» che avrebbe spinto Storari - assolto in abbreviato ( ma la procura ha fatto appello) dalla stessa accusa di Davigo - a rivolgersi a Davigo, per «autotutelarsi», temendo che il ritardo nelle iscrizioni dei primi indagati potesse, un giorno, essere imputato a lui, coassegnatario, assieme all’aggiunta Laura Pedio, del fascicolo originale, quello sul “falso complotto Eni”. Il magistrato ripercorre tutte le tappe che hanno portato alla diffusione dei verbali, che secondo la tesi dell’accusa sarebbero serviti anche a screditare la figura di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm ( inserito da Amara tra gli affiliati alla loggia) ed ex amico di Davigo, con il quale ha fondato la corrente Autonomia& Indipendenza. Verbali pesanti, al punto che Storari conta di fare in fretta le indagini per trovare riscontri o, al limite, iscrivere Amara sul registro degli indagati per calunnia. Così, a dicembre 2019, prepara due deleghe, che invia a Pedio via mail, ma senza ottenere risposta. «Nessuno mi ha detto che non andava fatto - spiega -, ma nessuno ha firmato la delega. Ed io da solo non potevo fare nulla. La cosa non mi sconcertava, però ho iniziato a stupirmi». Il 27 dicembre 2019, Storari incontra il procuratore Francesco Greco, al quale chiede un parere sulla credibilità di Amara. E la risposta lo lascia basito. «Greco mi disse: “Paolo, io ci credo, ma in questo momento non voglio fare niente, perché tra le persone chiamate da Amara nella loggia Ungheria c’è il generale Zafarana ( Giuseppe, ndr), comandante generale della Guardia di Finanza, e non me lo voglio inimicare, perché voglio sistemare il colonnello Giordano ( Vito, ndr) al nucleo di polizia valutaria”», nomina che poi effettivamente avviene. Come se non bastasse, «parlando con De Pasquale ( Fabio, procuratore aggiunto e titolare del processo Eni- Nigeria, ndr), e colloquiando sulla necessità di fare indagini mi dice: secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni». Interlocuzioni di cui Storari non ha traccia via mail, ma da quel momento, data la stranezza degli eventi, decide prendere appunti su tutto ciò che accade attorno alla vicenda Amara. Le perplessità aumentano quando l’ex avvocato dichiara che «nel processo Eni- Nigeria i difensori di Eni, Nerio Diodà e Paola Severino ( ex ministro della Giustizia, ndr), hanno avvicinato Marco Tremolada ( presidente del collegio giudicante, ndr) ricevendo in qualche modo rassicurazione che il processo sarebbe andato bene», informazione che avrebbe ottenuto da un altro avvocato. «Queste due righe - spiega Storari - vengono portate da Greco e Pedio a Brescia, per cui un ex ministro della Giustizia e un presidente del collegio vengono immessi nel circuito giudiziario sulla base di nulla. Ed è l’unica parte delle dichiarazioni di Amara che non è stata tenuta nel cassetto». La valutazione sulla credibilità di Amara, dunque, è «a geometria variabile» : su Ungheria non si muove nulla, ma diventa credibile se le dichiarazioni tornano utili al processo Eni- Nigeria ( conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati).
«Ho iniziato a farmi parecchie domande. Quindi ho pensato che dovessi informare il Csm - spiega Storari -. Scrissi al procuratore Greco, ma era tutto un “aspettiamo”. Non dissi che l’avrei fatto io, perché entrare in contrapposizione con il procuratore significava essere tirato fuori dal procedimento. E questo non lo potevo consentire, perché significava girare la testa dall’altra parte di fronte ad una situazione ingiusta». E così decide di rivolgersi a Davigo, «che non era mio amico», che chiama a inizio aprile spiegando sommariamente la situazione. «Mi disse che a lui il segreto non era opponibile. Così il giorno dopo misi i verbali word su una chiavetta e andai a casa sua - racconta -. Lui mi disse: lasciami leggere e ci rivediamo. Di lì a due giorni tornai da lui: mi disse che i fatti che Amara racconta sono gravissimi e che ci avrebbe pensato lui ad avvertire il comitato di presidenza del Csm. E mi consigliò, per tutelarmi, di cominciare a mettere tutto per iscritto». Ma come si concilia, chiede il giudice Roberto Spanò, la modalità irrituale con l’esigenza di autotutelarsi? «Ora conosco la procedura, all’epoca no. La cosa che mi è sembrata più naturale» era consegnarli a Davigo in qualità di componente del Consiglio e «persona specchiatissima. Ho saltato un passaggio - aggiunge Storari -, ma non con una finalità divulgativa» e per questo «trovo lunare quello che sta succedendo». Davigo, spiega, «mi era parso assolutamente in buona fede. E anche oggi, col senno di poi, lo ritengo in buona fede».
A fine aprile Storari prepara una scheda per l’iscrizione dei primi otto indagati e la invia a Pedio, che va a lamentarsi con Greco per non essere stata consultata. Così «sono stato minacciato di procedimento disciplinare» da parte degli allora vertici dell'ufficio, spiega il pm. Dopo qualche giorno Davigo comunica a Storari di aver parlato con il procuratore generale Giovanni Salvi e il vicepresidente del Csm David Ermini. «Dal mio punto di vista, a quel punto, ero a posto». E il 12 maggio, in maniera «estemporanea», Greco decide di sua iniziativa di iscrivere Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore e il loro socio Sandro Ferraro sul registro degli indagati. «Sono rimasto stupito - dice il pm milanese -, favorevolmente, perché si iniziava a far qualcosa. Non capivo. Oggi capisco: Salvi chiamò Greco e gli chiese cosa stesse facendo». Tutto rimane però fermo fino a settembre, quando si decide che la competenza dell’indagine spetta a Perugia, dove il fascicolo viene però inviato fisicamente solo quattro mesi dopo, a gennaio 2021. «In quel fascicolo non troverete nulla da dicembre 2019 a gennaio 2021. Allora la mia domanda è: perché è successo? - si chiede Storari - È una cosa normale? La risposta è no. Qual è la spiegazione? Non si voleva disturbare il processo Eni- Nigeria». Ma che interesse c’era? «Era il processo più importante in quel momento a Milano, De Pasquale era il responsabile di questo dipartimento che non tutti vedevano di buon occhio e una sconfitta a dibattimento voleva dire sconfessare la scelta organizzativa di Greco. Il Terzo dipartimento faceva i processi di serie A e questo dava fastidio ai colleghi, che erano ammazzati di fascicoli. E si arrabbiavano, giustamente». Proprio per questo la solidarietà manifestata dai colleghi a Storari rappresentava non solo un gesto di vicinanza, ma anche «un attacco al centro organizzativo».