E così ce l’ha fatta. Strano destino, che la separazione delle carriere, sognata tutta la vita da Silvio Berlusconi e Forza Italia, venga attuata da un ministro che è stato tutta la vita pubblico ministero. Epocale la è senza subbio, come dice il guardasigilli Carlo Nordio, questa riforma che avrà il compito, prima di tutto, di rendere davvero terzo e imparziale il giudice.

E basterebbe l’urgenza con cui il sindacato dei magistrati, sempre più corporativo e conservatore, si è affrettato a lanciare l’allarme e l’arrembaggio degli iscritti. Dovrebbero invece essere soddisfatte le toghe, quanto meno del fatto che non è intaccata la famosa “cultura della giurisdizione”, perché la carriera dei magistrati resta unica e unico rimane il concorso.

Sono state ascoltate. Infatti da questo punto di vista, pur essendo apprezzabile lo sforzo del ministro guardasigilli e del sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano, pure lui magistrato e forse più legato alla corporazione di quanto lo sia lo stesso Nordio, la riforma è impoverita dalla mancata divisione tra le due culture che dovrebbero separare i diversi ruoli. Parliamo della formazione professionale, che dovrebbe diventare maggiormente specialistica, ancorando il pubblico ministero alla cultura dell’investigazione. Sarebbe più onesto, meno ipocrita, ammettere che non esistono quasi del tutto i casi in cui, come prevede il codice, il pm svolga attività investigative anche in favore dell’indagato. Dovrebbe quindi essere lasciata a disposizione del giudice la vera cultura della giurisdizione, e prima di tutto quella dell’imparzialità.

Se a questo aggiungiamo quanto pesi, sul piano psicologico e sociale prima di tutto, la vicinanza di soggetti che hanno svolto lo stesso concorso, poi sono diventati colleghi e lavorano porta a porta, si capisce quanto sarebbe importante diversificare le carriere fin dal punto di partenza, il concorso. Solo così si potrebbe arrivare a quella divaricazione anche logistica e fisica di cui aveva parlato al Dubbio l’ex gip milanese Guido Salvini, quando auspicava “palazzi separati”.

In ogni caso la separazione tra la carriera requirente e quella giudicante c’è ed è un fatto simbolico, prima di tutto. Carlo Nordio l’ha dedicata a un illustre ex collega, Giovanni Falcone, da sempre favorevole alla separazione, oltre che a un altro genio del diritto come l’avvocato Vassalli. Colui che volle quel processo accusatorio di tipo anglosassone che le tradizioni italiche del diritto canonico hanno trasformato, con l’aiutino della Corte Costituzionale, in un mostro a più teste. Tendenzialmente accusatorio, ma con un pm potente e irresponsabile, in grado anche, tramite il Csm unico, di tenere sotto scacco sulla carriera i giudici che osino prendere le distanze dal rappresentante dell’accusa.

Ecco perché è importante, ed è il secondo punto della riforma, tenere separati i Consigli superiori della magistratura. Non solo per quelle pur importanti ragioni politiche, o meglio correntizie cioè partitiche che legano eletti ed elettori. Ma anche e soprattutto per il potere di ricatto che ogni pubblico ministero ha nei confronti dei giudici. Non occorre scandalizzarsi, perché il termine “ricatto” è molto forte. Ma è la storia che ce lo insegna. Viviamo ormai da qualche decennio nel regno del potere dei pm, non solo nei confronti dei cittadini, ma anche dei giudici. La stessa opinione pubblica, accuratamente orientata a ogni tornata di inchiesta giudiziaria mediatica, grida “vergogna” perché giustizia non è stata fatta, a ogni assoluzione. Perché c’è stato un pm che l’ha portata per mano dalle prime indagini, fino a far ritenere superflua se non negativa l’esistenza stessa del processo.

La storia politico-giudiziaria del Paese ci ha anche insegnato quanto sia facile, per i motivi di cui sopra, per una procura scegliersi il gip su misura e addomesticarlo fino a ottenerne l’acquiescenza del copia e incolla. Ben vengano dunque, finalmente i due Consigli superiori della magistratura.

Un’altra arma tolta dalle mani dei pm, oltre che delle correnti, è l’istituzione dell’Alta Corte di Giustizia, un organismo a composizione mista laico-togata, che avrà il compito di giudicare i magistrati in sede disciplinare. Un organismo la cui ispirazione risale a trent’anni fa e alla famosa Commissione Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, con relatore Marco Boato. Un altro mondo, un’altra sinistra. Sarà da vedere se i discendenti del Pci-Pds avranno lo stesso coraggio e soprattutto la stessa cultura delle garanzie. Voteranno la riforma, una volta arrivata in Parlamento?

Certo, oltre al mantenimento dell’unicità delle carriere, dovuta alla necessità, da parte del governo, di dover allontanare da sé il sospetto di voler rendere il pm responsabile davanti al ministro di giustizia, c’è un’altra grande assenza nella riforma. L’obbligatorietà dell’azione penale, lo sanno gli stessi investigatori prima ancora di noi tutti, cioè la Grande Ipocrisia del sistema giudiziario italiano. Che infatti negli ordinamenti anglosassoni del sistema accusatorio, non esiste. Per un motivo molto semplice, perché è impossibile riuscire a perseguire tutti i reati. Molti dei quali vengono lasciati cadere in prescrizione. Ma con quali criteri? Arbitrari. Si preferisce dunque l’arbitrio rispetto a una discrezionalità ratificata per legge?

Oltretutto, visto che gli stessi magistrati lamentano la lentezza e la farraginosità del processo penale, la riforma dell’articolo 112 della Costituzione ridurrebbe al minimo i processi e semplificherebbe i riti alternativi. Renderebbe più pulito, più sincero e quindi più legale il sistema giudiziario. Ma questo per ora è il mondo dei sogni. Vediamo se, di limatura in limatura, il governo Meloni riuscirà non solo a portare a casa la separazione delle carriere, ma anche a ottenere quei due terzi di consensi in Parlamento che eviterebbero il ricorso all’insidioso referendum.