Anche per i giudici della Corte d’Appello di Brescia Piercamillo Davigo diffuse illegittimamente i verbali dell’ex avvocato esterno Piero Amara, provocando un danno all’ex collega Sebastiano Ardita. Ed è per questo motivo che hanno confermato la condanna ad un anno e tre mesi inflitta lo scorso anno dal Tribunale di Brescia, dove l’ex pm di Mani Pulite era a processo per rivelazione del segreto d’ufficio.

Colpa dell’ex consigliere del Csm è stata quella di diffondere il contenuto dei verbali sulla presunta e inesistente Loggia Ungheria, ricevuti in maniera indebita dal pm Paolo Storari, che si era rivolto a lui per sbloccare le indagini, denunciando una presunta inerzia da parte dei vertici della procura di Milano. Davigo, anziché suggerire al collega di seguire le vie formali, invitò diversi consiglieri del Csm a prendere le distanze dall’ex amico Ardita, inserito in maniera falsa in quella lista. Un’accortezza che l’ex pm, però, non suggerì in merito alla posizione di Marco Mancinetti, altro togato di Palazzo dei Marescialli indicato come presunto affiliato alla loggia.

L’ex pm, per giustificare le sue azioni, si è sempre appigliato ad una circolare interpretata, secondo procura e giudici, in maniera sbagliata: spetta infatti alla procura, scrivevano i giudici, decidere se omettere - o eventualmente opporsi o ritardare - «la trasmissione delle informative per esigenze investigative o per la tutela di terzi». Proprio per tale motivo «la migrazione di atti coperti da segreto deve avvenire attraverso il canale comunicativo tracciato dalle normative in materia». Nessuna prova, nel corso del processo, aveva giustificato la scelta di Davigo, che ha non solo fatto circolare atti segreti, ma lo ha fatto allargando «in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione». Tra i quali c’era anche Nicola Morra, all’epoca presidente della Commissione parlamentare antimafia, organo che può sì conoscere atti coperti da segreto, ma chiedendoli all’autorità giudiziaria, che può anche ritardare la trasmissione degli stessi per motivi di natura istruttoria.

Secondo la memoria depositata da Fabio Repici, difensore di Ardita (costituitosi parte civile), le prove raccolte dal Tribunale «hanno dimostrato» che Storari «fu convinto dal dottor Davigo a fargli le rivelazioni sui verbali di dichiarazioni di Piero Amara, così quindi incidendo in modo decisivo sulla condotta di Storari». Ma non solo: stando alla sentenza di primo grado sarebbero diversi i punti oscuri. Tanto da non poter escludere nemmeno il dubbio che Davigo fosse a conoscenza dei verbali ben prima di aprile 2020 - data indicata come momento della consegna dei verbali - e che ci fosse una sorta di un «mentore ispiratore», come «pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Per Repici - e per i giudici di primo grado - «è certo che l'imputato tenne le condotte a lui contestate “per fare terra bruciata intorno al dottor Ardita”». Stando alle motivazioni della condanna in primo grado, infatti, «le risultanze processuali dimostrano che l’imputato, lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura a fronte dell’attacco “violentissimo... all’ordine giudiziario nel suo complesso” portato dall'avvocato Amara, abbia piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l’attenzione sul dottor Ardita, poiché, come egli ha candidamente spiegato nel giustificare la gemmazione delle rivelazioni versate ai soggetti menzionati nell’imputazione, vi era “dentro al gruppo consiliare una persona che, ove fosse stata esercitata l’azione disciplinare, avrebbe avuto problemi serissimi, persino di permanenza al Consiglio. Gli altri che erano stati raggiunti da cose anche meno gravi, si erano dimessi”». Un problema che non si era posto, invece, con Giuseppe Cascini, anch’egli all’epoca membro del Csm, al quale Davigo chiese informazioni sulla credibilità di Amara.

E ciò nonostante in quei verbali fosse contenuto anche il nome di Cascini, «persona menzionata dall’avvocato Amara tra i soggetti beneficiati, a propria insaputa, dalla Loggia Ungheria, cui è stato richiesto dall’imputato di pronunciarsi sull'affidabilità dell’autore di propalazioni che in definitiva riguardavano anche lui, con intuibile possibile riverbero della conoscenza acquisita sullo sviluppo di indagini in corso». Per Repici, «vi sono sovrabbondanti prove» del fatto «che le gravissime calunnie riferite alla procura di Milano» da Amara ai danni di Ardita (oggi parte civile nel processo che vede l’ex avvocato Eni imputato di calunnia per quelle dichiarazioni) «furono sciaguratamente condotte dal dottor Davigo fino ai vertici della Repubblica, a circa metà dei componenti del Csm (così condizionando il funzionamento di quell’organo di rilevanza costituzionale), a persone estranee al Csm e ad ambienti politici».

Dure erano state le parole dei giudici di primo grado, che parlarono di «incontinenza divulgativa», «selezione» dei confidenti, «modalità quasi “carbonare”» di circolazione di notizie segrete, condotte, si leggeva, che «appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». «Con il suo comportamento - scrivevano i giudici - l’imputato ha disseminato tossine denigratorie nella stretta cerchia di frequentazioni dell’ex amico, con ripercussioni anche sul corretto funzionamento del Csm». Ma soprattutto, «se l’elusione dei binari formali aveva lo scopo di impedire la divulgazione di una notizia da mantenere segreta, il risultato ottenuto è stato quello di averla diffusa in modo incontrollato». Di fronte al «muro di gomma» da lui denunciato, dunque, Storari avrebbe dovuto rivolgersi alla procura generale di Milano, l’unica «preposta al controllo delle disposizioni in materia di iscrizione delle notizie di reato e alla vigilanza sugli eventuali contrasti all'interno dell’Ufficio di procura». Dopo la condanna, il legale di Davigo, Davide Steccanella, ha ribadito di credere nell’innocenza dell’ex pm, annunciando sin da ora ricorso in Cassazione.