LO STRAPPO DEL MINISTRO DEGLI ESTERI E LA REPLICA DELL’EX PREMIER

Il ministro degli Esteri attacca il capo 5S per la sconfitta elettorale e la politica internazionale. L’avvocato risponde: «È nervoso per il secondo mandato»

Ha aspettato il giorno dopo l'ordinanza del Tribunale di Napoli che conferma Giuseppe Conte alla guida del Movimento prima di sferrare l’attacco frontale al vertice pentastellato. Ma forse Luigi Di Maio preparava da mesi l’assalto al presidente, quell’avvocato diventato premier proprio grazie a un’intuizione del ministro degli Esteri e diventato troppo in fretta capo di un partito ormai allo sbando, trasfigurato da quattro anni di governo, indeciso tra l’istinto barricadero e il nuovo abito della responsabilità. Di Maio non ha dubbi, ha scelto di indossare i panni istituzionali e non intende cambiare casacca, e sfida la trasformazione radicale di quel mite giurista, diventato improvvisamente un Di Battista della domenica. Il crollo dei consensi certificato dalle Amministrative si trasforma così nell’occasione ideale per affondare il colpo e processare l’intera linea politica del presidente pentastellato, definita «ambigua», «poco democratica» e «autoreferenziale». Ne consegue un botta e riposta al vetriolo tra il numero uno del M5S e il suo predecessore senza esclusione di colpi.

Che si tratti di posizioni sulla guerra in Ucraina, di collocazione internazionale dell’Italia o di gestione del Movimento il giudizio di Di Maio non cambia: quella di Conte - che pure non viene mai nominato durante la rapidissima conferenza stampa convocata in mezzo alla strada - è una guida inadeguata e incapace di assumersi responsabilità. Una critica feroce e a tutto campo, che il diretto interessato liquida come prevedibili «fibrillazione anche per le sorti personali» legate al voto sul mantenimento del limite dei due mandati. Ma per il ministro degli Esteri, che parla ai cronisti in mezzo alle strade torride di Roma, «non esiste un posto dove poter parlare oggi», l'ex premier non ha fatto altro che disorientare l'elettorato, ondeggiando, alla «Salvini», tra un atteggiamento di giorno incendiario, con tanto di minacce al governo, e di notte pompiere, pronto a votare qualsiasi provvedimento contestato fino a un minuto prima. Il risultato è stato un disastro senza precedenti che ha un nome e un cognome e «non si può dare sempre la colpa agli altri, non si può risalire alle elezioni di un Presidente della Repubblica per dire che elezioni amministrative sono andate così male». Non solo, «credo che bisogna anche assumersi la responsabilità rispetto a un’autoreferenzialità che è un po' superata», aggiunge Di Maio. La replica è puntuale: «Io in campagna elettorale ho messo la faccia dappertutto, da nord a sud, non sono andato in due posti soltanto», risponde l'avvocato. «So come assumermi la responsabilità quando si ha una leadership politica».

Sullo sfondo della disputa non ci sono solo i grandi temi di politica internazionale - l’Italia con i piedi ben piantati nella «Nato» e «nell’Unione europea» - ma anche le beghe di bottega grillina, apparentemente periferiche nel ragionamento, eppure centralissime nel dibattito pentastellato, come la democrazia interna. «Credo che il Movimento 5 Stelle debba fare un grande sforzo di democrazia interna», dice ancora Di Maio, riconoscendo almeno che il problema non nasce oggi ma affonda le radici nella fondazione stessa di quel partito, caratterizzato dalla gestione padronale di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. «Ma proprio per questo, rispetto anche a un nuovo corso, servirebbero più inclusività, più dibattito interno, anche includere persone esterne al Movimento, portarle in questa grande esperienza», prosegue, provocando il contrattacco di Conte che non ci sta a prendere lezioni di democrazia dal suo rivale: «Quando è stato leader Di Maio, c’era un solo organo politico: il Capo politico. Che faccia lezioni adesso a questa comunità di democrazia interna fa sorridere».

Il tema è centrale, perché si scrive “democrazia interna” ma si legge “regole certe sulle deroghe al limite dei due mandati”, attualmente affidate alla discrezione del capo. È su questo punto, arrivati agli sgoccioli della legislatura, che si gioca buona parte della guerra interna. Di Maio, così ingombrante nella storia pentastellata, sa di aver “diritto” a un altro giro ma vorrebbe estendere questo privilegio a buona parte dei suoi uomini, che verranno quasi certamente esclusi dalla benevolenza di Conte. E non è un caso che a sostenere l’assalto del titolare della Farnesina escano allo scoperto i vari Castelli, Di Stefano, Battelli, D’Uva: tutti dimaiani, tutti governisti, tutti arrivati al secondo mandato.

Infine Di Maio prova a correggere la linea del Movimento sull’invio di armi all’Ucraina prima che sia troppo tardi. Prima cioè che il 21 giugno Giuseppe Conte decida di presentare una risoluzione in Parlamento che vincoli il governo. L’avvocato sembra intenzionato ad alzare lo scontro col premier per quel giorno, il suo predecessore alla guida dei 5S prova a stopparlo. «Non credo che sia opportuno inserire nella risoluzione che impegna Draghi ad andare in Consiglio europeo delle frasi o dei contenuti che ci disallineano dalle nostre alleanze storiche. L’Italia non è un Paese neutrale, ma è all’interno di alleanze storiche da tanto tempo», dice, ostentando il piglio istituzionale appreso alla scuola della Farnesina. E con lo stesso fare si sostituisce al leader nell’indicare la rotta per il futuro: «Siamo una forza politica che ambisce a guardare al 2050 però in realtà sta guardando a prima del 2018 che era un altro mondo e c’è una radicalizzazione in corso su cui io non concordo». Le intese con i gilet gialli andavo bene quando a farle era Di Maio, ora che Di Maio ha cambiato punto di vista anche Conte dovrebbe adeguarsi. Sempre che il ministro non abbia intenzione di farsi un nuovo partito. Ma questo «ce lo dirà lui in queste ore», ironizza l'ex premier.