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Pubblichiamo l’intervento del consigliere Cnf Antonio Gagliano in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2024.
L’allarme che il nostro Presidente nazionale avv. Francesco Greco ha manifestato col suo intervento nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario avanti la Corte di Cassazione, è il grido di allarme di tutti gli avvocati italiani.
Una giurisdizione che si incentra su un processo in cui la trattazione scritta caratterizza e pervade ogni sua fase ed in cui invece l’oralità rimane solo un’eventualità remota, rischia di essere un processo senza effettivo contraddittorio e, quindi, non certo un “giusto processo”: l’udienza a trattazione scritta, tanto nel civile che nel penale, è proprio una contraddizione in termini, un’antinomia già sul piano lessicale perché udire, perché udienza è l’ascolto di (almeno) due voci a confronto.
Non ci preoccupa tanto il fatto che il Tribunale, che il Foro, una volta centro della vita civile e politica della Città, rimanga uno spazio inanimato, privato della presenza degli avvocati “remotizzati” in un “non luogo” virtuale. Ci inquieta molto di più il fatto che il Giudice, e quindi l’attività e la funzione giurisdizionale, perda quella componente dialogica, quella feconda contaminazione di esperienze e culture diverse che fanno trovare soluzioni sempre nuove e più adeguate ad esigenze in continuo divenire, mutevoli, spesso completamente nuove.
La trascorsa emergenza pandemica giustificava il sacrificio dell’oralità ma, come troppo spesso accade, la soluzione emergenziale è diventata la regola, come se si potesse fare a meno per sempre dei principi della concentrazione, dell’oralità, dell’effettivo contraddittorio senza arrecare pregiudizio alla natura stessa del “processo”.
La logica dell’emergenza – ieri l’altro per la criminalità organizzata, ieri per il covid, oggi per i fondi europei, domani per chissà cosa- sta facendo dimenticare la ragion d’essere dell’attività giurisdizionale che, nella sua essenza, è proprio quella dello ius dicere, dell’accertare e quindi dell’affermare il diritto ed il torto come risultato di una compiuta ricostruzione dei fatti, delle vicende storiche ed umane portate al cospetto del Giudice. Questi è quindi chiamato ad assumere, a pronunciare una decisione di merito o, meglio, di pieno merito che “accerta” e “statuisce” sul piano sostanziale, non solo formale.
Costituisce un principio inviolabile, fondamentale – consacrato anche dall’art. 47 del Trattato dei diritti fondamentali dell’Unione europea - quello per cui al cittadino va riconosciuto il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, un ricorso – cioè - che si concluda con l’affermazione, o la negazione, di una domanda. Senza tale indefettibile conclusione avremo assicurato solo una parvenza di ricorso, non già uno effettivo così come quel fondamentale Trattato richiede.
L’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo proclama che ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza …. davanti a un tribunale … al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.
Ed invece in questi anni, specie con queste ultime riforme, la Giurisdizione italiana si caratterizza sempre più per la ricerca spasmodica, incessante di una via di fuga dal principio del ricorso effettivo, dal diritto – fondamentale - di ottenere una pronuncia nel merito in capo alle persone che si rivolgono al Giudice.
Il processo, anziché un percorso che giunge ad accertare fatti ed a pronunciare diritti, si rivela sempre più una spirale astrusa, un reticolo inestricabile che sfocia nel vicolo cieco di una pronuncia di inammissibilità. Ovviamente non mi riferisco alla assolutamente giustificata declaratoria di inammissibilità delle questioni di merito avanti il Giudice di legittimità, bensì alla oltremodo ricorrente soluzione per cui un Giudice di merito adotta una sentenza solo processuale in virtù di aspetti formali, anzi formalistici, legati alle modalità di deposito o presentazione o persino di redazione ed a breve anche di veste grafica, degli atti delle parti.
Troppe le norme intervenute per regolare il processo ed i suoi atti che hanno però il risultato di negare il processo stesso, cioè il diritto ad una pronunzia nel merito, ad un accertamento delle ragioni delle parti. Quante inammissibilità e preclusioni nel processo civile e, ora, persino in quello della famiglia e delle persone!
E come non pensare, riguardo il rito penale, alle nuove norme che regolano la proposizione delle impugnazioni (581, 582 del codice) nella cui trama è stata disseminata una serie interminabile di cause di inammissibilità, legate persino alla necessità di reiterare nuovamente l’elezione di domicilio pur quando questo non era cambiato rispetto alla fase di primo grado, o di munirsi di una procura speciale da parte dell’imputato assente che, nella pratica, costituisce incombente tutt’altro che agevole specie per le difese di ufficio.
L’inammissibilità è stata legislativamente legata (l’articolo 24 del d. l.vo 137 del 2020, introdotto sotto l’egida dell’emergenza pandemica, ma rimasto ancora in vigore quasi a sugello dell’idea del più esasperato formalismo) persino a condizioni -estranee al processo vero e proprio- di natura tecnica, informatica, relative al formato digitale di un file o alla caducità di un indirizzo pec, addirittura affidata a provvedimenti di natura amministrativa che finiscono col frustrare precisi diritti, processuali e sostanziali, che invece sono di rango primario essendo riconosciuti dal legislatore o per certi aspetti anche dalla Carta Costituzionale.
Un coacervo di norme, e di prescrizioni tecniche, e soprattutto di ostacoli sulla strada del diritto al processo, che ha vulnerato il tradizionale principio della salvezza degli effetti degli atti di parte di cui sia chiara la natura e finalità.
L’interpretazione che la prassi giurisprudenziale ha dato a tutte tali norme è rimasta quasi sempre ispirata al principio del “dis-favor impugnationis”, privilegiando la comoda e sbrigativa soluzione dell’inefficacia degli atti di impulso della parte pur a fronte di possibili più favorevoli letture e, ciò, anche nei casi in cui il provvedimento gravato incide sulla libertà personale.
Solo in apparenza, in questo modo, si smaltisce l’arretrato o si riducono le pendenze processuali: in realtà si assiste ad una moltiplicazione di processi sul processo, con un impegno enorme di risorse umane e materiali che non produce alcun risultato, del tutto sterile rispetto alla aspettativa, alla domanda di giustizia dei cittadini.
Al riguardo, non si voglia considerare peregrina l’idea secondo cui la prima riforma, senz’altro a costo zero, della nostra Giustizia dovrebbe essere quella di una razionalizzazione delle regole – e di una loro applicazione più ragionevole - che eviti che troppe energie e risorse si spendano inutilmente su questioni formali e che riesca, invece, ad indirizzare quelle stesse risorse verso un accertamento pieno dei fatti e verso una reale statuizione sui diritti (e doveri) delle persone o dello stesso Stato.
Anche la prospettiva dell’impiego dell’intelligenza artificiale nell’ambito dell’attività giurisdizionale rischia di tramutarsi in un ulteriore fuga dal pieno accertamento dei fatti e dei diritti reclamati: qualsivoglia algoritmo è solo una scorciatoia, che ottunde e massifica ogni singola vicenda umana e giuridica nella cornice di una sequenza alfa numerica, perdendo di vista le peculiarità del caso concreto, della concreta vicenda di vita che deve rimanere sempre il centro, l’anima di ogni processo.
Per non dire di tutte quelle forme procedimentali in cui si prescinde dall’accertamento pieno di un fatto, di una condotta, di una responsabilità personale, per ancorare conseguenze enormemente afflittive per la vita delle persone al mero sospetto, ad un fumus di pericolo, sostituendo la presunzione, o spesso la congettura, alla prova: anche il sistema delle misure di prevenzione costituisce una scorciatoia, un “non” processo in cui il diritto individuale, personale o patrimoniale, finisce col soccombere pur senza l’accertamento, processuale, di un fatto di reato.
Né può esser taciuto quel detrimento che il cittadino subisce “prima” del suo processo ed a prescindere da esso: la pubblicazione di delicati atti, di intercettazioni frutto di forme di intrusione sempre più sofisticate ed invasive nella vita privata, rappresenta un’afflizione, spesso terribile, che vanifica l’accertamento giudiziale della responsabilità perché la pena, quando arriva il giudizio, è già stata irrogata, e sofferta, sulle note del pubblico ludibrio. Per noi appare indispensabile che si riesca a frenare questo costume perché un Paese civile non può tollerare che il processo legale, giusto venga sostituito con uno pseudo processo mediatico.
Ecco, in sintesi, il nostro cupo timore: la marginalizzazione dell’accertamento e della vicenda processuale vuoi attraverso l’abbandono del principio di oralità ed immediatezza, vuoi per l’insinuarsi di metodi e strumenti che lo riducano all’elaborazione di sequenze algoritmiche asseritamente scientifiche ma in realtà solo oscure ed anonime, vuoi ancora per l’invadenza di alternativi binari procedimentali che altro non sono che un espediente per aggirare i principi di legalità della responsabilità penale e della prova, vuoi infine perché si dà sempre più in pasto all’opinione pubblica un “altro” processo, si mette continuamente in scena il processo mediatico obliterando del tutto la funzione ed il ruolo, e persino il risultato, di quello legale, autentico, vero.
Pensiamo che la nostra idea di processo, che è quella del giusto processo delineato dall’art. 111 della Costituzione, possa ricevere un vantaggio da una riforma che introduca anche nel nostro sistema giudiziario il principio della separazione delle carriere: lo “ius dicere”, la giurisdizione propriamente detta affidata solo ai Giudici nel contesto di un effettivo e paritario contraddittorio tra le parti, deve essere messo al riparo da torsioni di matrice politica, deve essere esclusiva espressione di una cultura propria della giurisdizione che non può accomunarsi a finalità od a elementi di altra natura come, senz’altro, sono quelli di cui è portatore il Pubblico Ministero. Questo non meno alto Ufficio, infatti, persegue scopi necessariamente collegati a logiche del potere esecutivo, a finalità insite nell’attività amministrativa e di governo e la cui prospettiva, inevitabilmente, pone in secondo piano il “giusto” processo ed i suoi principi.
Avvertiamo quindi che la funzione giurisdizionale, e quindi il processo, stia percorrendo un piano inclinato alla cui fine si profila una terribile ridimensionamento, quasi la morte del processo e siamo angosciosamente consapevoli del fatto che se muore il processo legale, il processo giusto morirà la Giustizia sia come imprescindibile funzione dello Stato che come ideale, come aspettativa e come diritto delle persone.
Scriveva Salvatore Satta che dentro il processo c’è un mistero, insondabile quanto affascinante, che fa sì che ogni singolo processo tende a costruire un diritto, un’affermazione di autentica giustizia anche quando esso opera nel peggiore dei contesti.
Ecco, allora, bisogna difendere il ruolo, l’importanza, la bontà, l’efficienza, la razionalità, soprattutto la centralità del processo e delle sue regole, bisogna cioè difendere il “giusto processo” se si vuole veramente far trionfare il diritto e la Giustizia.