Il principio è banale: se intercetti serve l’autorizzazione di un giudice, ergo se prelevi, o per meglio dire copi le chat dal telefonino di un indagato, vale lo stesso discorso, passi prima dal giudice. Nulla di sconvolgente. Eppure il diritto penale segue il buonsenso solo dietro energiche sollecitazioni: così ci è voluto nientedimeno che un emendamento governativo ( per il quale si è battuto con la consueta tenacia il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto) perché la logica si traducesse in norma di rito. È storia delle ultime ore: nella commissione Giustizia del Senato, la proposta di legge di Pierantonio Zanettin ( FI) e Giulia Bongiorno ( Lega) è stata integrata con la modifica condivisa da via Arenula con il relatore del provvedimento, Sergio Rastrelli di FdI, avvocato come tutti gli altri protagonisti della vicenda. Ebbene, la sospirata affermazione di ragionevolezza ha scatenato un uragano di reazioni negative, per non dire furibonde, nella magistratura: dalla vicepresidente dell’Anm Alessandra Maddalena, che proviene dalla centrista e moderata corrente di Unicost, ai vertici dei gruppi progressisti, Ciccio Zaccaro di Area e Stefano Musolino di Md, tutti a sostenere che – se si dovrà passare prima dal gip sia per il sequestro del cellulare sia per il successivo prelievo dei dati, e se per giunta, come prevede la modifica, la “copia forense” implicherà una udienza stralcio aperta ovviamente alla difesa – le stesse indagini di mafia saranno irreparabilmente ostacolate.

Alle spalle del provvedimento disegnato dal guardasigilli Carlo Nordio e da Sisto ci sono peraltro una sentenza della Corte costituzionale sulla vicenda Open e alcune pronunce conseguenti della Cassazione. Ma insomma, il punto vero è il fastidio, diciamo l’allarme dell’ordine giudiziario requirente per quest’improvviso obbligo di attenersi alle garanzie, per l’asserito intralcio della difesa, per la fine delle “mani libere” in ambiti particolari come quello dei dispositivi sequestrati agli indagati. Fine di una libertà senza controlli, o almeno libertà del pm un pochino più sottoposta al controllo di giurisdizione e al principio di parità fra le parti, il famoso articolo 111. Una new wave che i pm percepiscono come intollerabile. Ma che non si limita certo a interstizi particolari come quello degli smartphone. Qualcosa di analogo, e di più grande, sta per verificarsi con le misure di prevenzione antimafia. Altro campo in cui il pm può realizzare la propria indisturbata autorità, almeno alla luce delle norme attuali. Ebbene, le misure patrimoniali antimafia si basano sul principio, non dichiarato, che il sospetto valga una pena definitiva. Basta vi sia sproporzione fra il reddito e i beni di un imprenditore perché la Procura possa ottenere il sequestro e poi la confisca di aziende e patrimonio personale, con spazi di contraddittorio dalla consistenza romanzesca e meraviglie giuridiche su cui si staglia la

competenza sui ricorsi avverso i sequestri attribuita allo stresso giudice che ha ordinato quei provvedimenti. Come se uno chiedesse a un poliziotto: “Ma sei proprio sicuro di volermi arrestare”?

Follie. Giustificate però, dalla magistratura antimafia, con l’eccezionalismo tipico della lotta al crimine organizzato. Ma anche qui, il vero punto è che la magistratura si ribella: nella Bicamerale presieduta da Chiara Colosimo, di FdI, è già partita la guerra di trincea sul caso Cavallotti, vicenda esemplare ora finita alla Corte di Strasburgo, e potenzialmente in grado di travolgere tutto il castello della prevenzione senza garanzie. I rappresentanti della magistratura in Parlamento sono già schierati per respingere l’assalto all’intoccabile codice del 2011. Anche qui, il vero nodo è che i pm non tollerano l’idea di dover rinunciare al loro strapotere. Non concepiscono una riforma che sottragga loro la libertà di operare come vogliono. In un quadro che, in tutto e per tutto, è quello del processo inquisitorio. Eppure, contro il far west dell’antimafia c’è, come detto, una sentenza Cedu in arrivo. E c’è persino una proposta di legge, già assegnata alla commissione Giustizia, proposta dagli ammirevoli deputati- avvocati di FI Pietro Pittalis, Tommaso Calderone e Annarita Patriarca, col sostegno del vicepresidente azzurro della Camera Giorgio Mulè. Qualcosa insomma, nonostante tutto, si muove pure nel santuario finora inviolabile degli abusi dell’antimafia.

E ancora: il ddl Nordio, di quelle prerogative intoccabili, ne scalfisce parecchie: vanifica l’uso mediatico delle intercettazioni, cioè il tentativo di costruire, attorno all’indagato, una narrazione colpevolista che condizioni il giudice ( direttamente o comunque attraverso l’agitarsi dell’opinione pubblica) fino a rendere già scritto l’esito del processo. Anche qui vacilla l’impero. Non a caso l’Anm, sul ddl Nordio, è stata terribilmente critica, e non solo sull’abuso d’ufficio.

Un pezzo per volta, si va verso un’attuazione dell’articolo 111. Della parità fra le parti. Si va verso il disarmo nucleare delle Procure. Che rischiano davvero di perdere quella condizione di assoluto vantaggio sulla difesa. È un potere che vacilla. Un impero che declina. I suoi sostenitori esterni, cioè il giustizialismo politico e intellettuale, si oppongono, reagiscono. Ma quando finisce un’epoca, le reazioni sono tanto insofferenti quanto vane.