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Francesca Scopelliti parla sempre al plurale. Non c’è un lei senza lui, il suo Enzo Tortora. Ne ripete il nome all’infinito, con il terrore che ce lo possiamo dimenticare, con tutto ciò che quel nome significa. Porta i suoi 73 anni come si porta una sciarpa leggera comprata agli Champs-Élysées, come se dentro non ci fossero i giorni neri della giustizia italiana. Per un momento si ripensa la ragazza di quarant’anni fa, magrissima e con gli occhialoni, poi dice: “Che ci avrà visto in me?”. Lui ci vide tutto, pensiamo noi, che già sappiamo del colpo di fulmine che poi è diventata un’incredibile storia d’amore e dolore.
Ma chi è tentato di confondere la storia con la persona, rischia di perdersi la donna che il 17 giugno 1983 fu schiacciata dagli schiavettoni messi ai polsi di Enzo Tortora. I fatti li conosciamo: l’arresto studiato a favore di telecamere, la passerella, la gogna, eccetera. «Fu come se un Ufo mi avesse preso e portato in una dimensione completamente estranea». Lei non perse la libertà, ma l’idea che aveva di questo Paese. Né buona né brutta, l’idea che una giornalista di 31 anni che si occupa di spettacolo semplicemente non ha e non vuole avere, della giustizia.
E dire che l’aspettativa è delle migliori, quella notte: un soffio dal week end di svago a Roma, loro due soli, che tanto basta quando stai con qualcuno da pochi mesi. “Buonanotte, a domani”, dicono prima di riagganciare. Ma domani non è mai arrivato, per Enzo e Francesca. Dall’altro capo del telefono la voce del conduttore di Portobello non c’è più. C’è Renata Pisu, amica e giornalista, che l’avvisa di quanto è successo. E le sta accanto per tutto il tempo con Annamaria Rodari, che insieme formavano quel piccolo “soviet” che Enzo il liberale si era inventato per chiamare con affetto e ironia le due amiche comuniste.
Qualcuno doveva rimanere lucido in quella follia, Francesca ne ha bisogno. Non può correre a Roma perché rischia solo di aggiungere altro pettegolezzo ai chili di fango che già ricoprono l’indagato eccellente. Resta informata attraverso Anna, la sorella di Tortora. E gli scrive decine e decine di lettere, e lui risponde, e ne viene fuori il libro fatto con l’aiuto dei penalisti che oggi conosciamo come Lettere a Francesca (Pacini editore). Cara Cicciotta, grillo, greca... Quei mille nomi che Enzo Tortora si inventa per lei e che ci impongono di tornare indietro ancora una volta. Nello studio della prima intervista, il primo incontro, lui parla, lei registra. E quando sbobina si rende conto: «Mi colpii della sua intelligenza che sembrava suggerirmi con la voce anche la punteggiatura». Di più, «Enzo era un uomo dell’800». Galante e niente affatto «antipatico» come l’hanno dipinto, il più antipatico degli imputati. Un «uomo semplice», come direbbe Leonardo Sciascia, che con le sue frasi separa i capitoli della vita di Tortora nella memoria di Scopelliti.
«Non puoi non innamorarti di un uomo così. Un uomo di cultura, di intelligenza, di umanità», ammette Francesca sfinita dalla nostra curiosità. Lui l’affascinava, ogni giorno di più. «Ma da buona calabrese cresciuta negli anni ‘50 temevo che cercasse soltanto un’avventura». Ci scappa da ridere. E anche da piangere: un’avventura, certo, ma quale!
Fatto sta che un lavoro comune li porta a vedersi sempre più spesso. Finché una sera le dice: «Ti porto a cena?». Bei giorni. Poi si è dovuta dare un «colpo di reni». È arrivato l’Inferno. «Dico sempre che per me Enzo non solo è stato un grande amore della mia vita, mi ha dato la capacità di diventare grande, cioè di capire, di aprire gli occhi su un mondo e di capire quello che succedeva. Forse non l’avrei mai imparato. Però è stata una lezione molto costosa». Francesca prende un altro biscotto dal vassoio grazioso con le tazzine e manda giù il boccone. Peggio la galera o dopo, a casa? «Quando eravamo agli arresti domiciliari, passavamo i pomeriggi in questa grande “biblioteca”, la libreria di Enzo. Lui prendeva uno libro e cominciava a raccontarmi. Poi ancora un altro. E si ricordava sempre dove riporlo. Mentre io li compro doppi perché mi dimentico di averli già». Un gran lusso, Tolstoj e la letteratura russa. Meglio del carcere. Dove Francesca invece non poteva mettere piede, perché lui non voleva farsi vedere così, era bastato lo choc con Montanelli. Ma anche fuori «non è un divano a darti la libertà», le dice Enzo. Che pena ogni giorno da innocente con un’accusa di associazione camorristica e traffico di droga stampato addosso. «Enzo non poteva essere colpevole di quelle accuse proprio perché io lo amavo. E credo che l’amore abbracci anche questo, la conoscenza e la certezza di quello che è l’uomo. Non ho mai avuto dubbi, mai».
Poi diciamola tutta, Francesca Scopelliti è «calabrese e pure capricorno». In battaglia ci va volentieri, e infatti per una giustizia migliore ci va ancora. Ma Enzo Tortora è di tutti o più suo, di Francesca? «Con la Fondazione che lui mi ha affidato in un certo senso l’ho dato sempre di più agli altri. Dopo la sua morte Enzo era diventato la cattiva coscienza di questo paese, bisognava impedire che lo cancellassero dalla memoria sociale. Io questo non l’ho consentito, ed è l’unico risultato che mi attribuisco». Ecco l’impegno sociale e politico. Prima con i Radicali, con Marco Pannella. Tra i banchetti per i referendum “traditi” sulla responsabilità civile dei magistrati. Di comizio in comizio fino al Senato, segretario della Presidenza e componente della commissione Giustizia. «Io avrei voluto che il caso Tortora si analizzasse come un corpo sul tavolo dell’autopsia giudiziaria per capire quali erano state le cause e come si poteva rimediare. Invece questo non l’ha fatto nessuno, e ancora oggi, appena si parla di riformare la giustizia, c’è una levata di scudi pazzesca».
Dicevamo dei referendum, per i quali «Enzo si è battuto come un leone fino alla fine». Ha chiuso il cerchio, è tornato anche in tv con la celebre “Dunque, dove eravamo rimasti?”. Fino a quando il tumore, la malattia «gli è scoppiata dentro: era quella bomba al cobalto di cui parlò al momento dell’arresto». E così, consumato, se ne è andato troppo presto, guadagnandosi quantomeno l’oblio su ciò che sarebbe venuto dopo, come suggerisce Giuliano Ferrara. Invece Francesca resta sola, persa, trafitta. «Ma Pannella mi ha sempre tenuto molto impegnata». Lo abbiamo già detto.
Ma in tutto questo vagare tra i ricordi ci siamo persi il giorno dell’assoluzione di cui invece bisogna parlare. Di nuovo indietro, 1986: la Corte d’appello sbriciola la condanna di primo grado. Merito soprattutto del giudice Michele Morello, che «con la sua relazione spianò la strada all’assoluzione». Pensare che Enzo Tortora voleva pure ricusare e per spregio della giustizia non si presenta neanche all’udienza. Il processo lo ascolta in diretta su Radio radicale. E sente musica per le sue orecchie, un po’ sbigottito. «Ma che è successo?», chiede lui. «E io non dimenticherò mai la sua espressione, la gioia di un cuore malato». Per questo Francesca Scopelliti il giudice Morello lo porta nel cuore. Per la prima volta lo ha incontrato in un incontro ufficiale la settimana scorsa a Napoli, tra la «gente genuina che contrasta con la protervia di quei magistrati di allora» abbarbicati al loro castello di carte. «È stato come far rivivere Enzo, vittima di questo crimine giudiziario. Ecco, posso dire che finalmente Enzo ha fatto pace con Napoli». Ce l’ha portato Francesca, ancora una volta.