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È talmente dolorosa, la vicenda di Stefano Cucchi, che le sue ultime propaggini processuali non possono ascriversi né alle rivendicazioni di sua sorella, la senatrice Ilaria, e del resto della famiglia, né al presunto sollievo degli imputati. Ma una cosa è certa: con la legge sulla prescrizione che la settimana prossima sarà licenziata in prima lettura alla Camera, i reati di falso contestati al maresciallo Roberto Mandolini e al carabiniere Francesco Tedesco non sarebbero stati dichiarati estinti, come ha invece dovuto fare la Cassazione nella pronuncia di due sere fa. Il che non vuol dire, intendiamoci, che i due militari dell’Arma “usciti” definitivamente dal processo sull’occultamento delle percosse subite da Stefano si siano avvalsi della prescrizione in modo ingiusto, o che quella prescrizione sia una conclusione indegna.
Niente di tutto questo: parliamo comunque di un fatto avvenuto più di quattordici anni fa, e sarebbe fuori luogo ritenere scandaloso che dopo tredici anni (la prescrizione, per Mandolini e Palumbo, è stata dichiarata ieri ma era sopraggiunta nel 2022) un reato di falso si estingua. Ma in mezzo al conflitto sul senso della decisione assunta dalla Suprema corte – che ha annullato per prescrizione, appunto, le condanne dell’appello-bis (3 anni e mezzo per Mandolini, 2 anni e 4 mesi per Palumbo) –, c’è anche questo non trascurabile rilievo politico-giuridico: la riforma del centrodestra avrebbe impedito la prescrizione di quei delitti.
E non c’è da inerpicarsi in calcoli complicati, per dirlo. Basti considerare, innanzitutto, che i fatti contestati a Mandolini e Palumbo risalgono com’è noto, al 15 ottobre del 2009, cioè alla notte stessa del pestaggio inflitto a Cucchi da altri due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro (già condannati a 12 anni per omicidio). Ebbene, nel 2009 le norme in vigore in materia di prescrizione erano, ovviamente, quella della legge ex Cirielli. Solo nel 2017 sarebbe stata approvata la riforma Orlando, che peraltro neppure fece in tempo a entrare in vigore e già venne soppiantata dalla Bonafede. Ma a parte l’incredibile carambola di riforme che la lotta politica ha prodotto sul nodo dell’estinzione dei reati, qui interessa un’altra cosa, semplice semplice.
La riforma del centrodestra utilizza come base di partenza proprio la ex Cirielli, la disciplina della prescrizione a cui la Cassazione ha dovuto riferirsi nel processo per il falso su Cucchi. Su quella base, il testo condiviso dalla maggioranza, da Azione e da Italia viva innesta un meccanismo per cui il decorso della prescrizione si interrompe per due anni dopo la condanna in primo grado e per un anno nel caso in cui la condanna sia confermata in appello.
Considerato che per i carabinieri Mandolini e Palumbo, la prescrizione è intervenuta nel 2022, la doppia sospensione prevista dalla riforma del centrodestra sarebbe abbondantemente bastata per tenere in vita il processo e determinare dunque un esito completamente diverso: non l’annullamento, per prescrizione del reato, della precedente condanna, ma la condanna nel merito, tenuto conto che, nel merito appunto, la Suprema corte non ha accolto i ricorsi dei due carabinieri.
A che serve rilevare tutto questo? Ad alimentare la rabbia della senatrice Cucchi e della sua famiglia? No. Ad affermare il consumarsi di un’ingiustizia? Nemmeno: 13 anni per accertare un reato di falso sono tantissimi. Può darsi sia vero che, come afferma l’avvocato Diego Perugini, difensore di una delle parti civili del processo, «proprio grazie ai depistaggi la giustizia non è arrivata in tempo»: ma le norme, e anche quelle della prescrizione, tengono conto di tutto, incluso questo genere di fattori.
È un altro il motivo per cui è importante rilevare che, se la nuova legge fosse stata in vigore all’epoca del pestaggio del povero Stefano, le cose sarebbero andate diversamente. Non più di due giorni fa il Movimento 5 Stelle si è scagliato contro la riforma con dichiarazioni del tipo «si torna alla giustizia denegata», «tanti processi andranno in fumo», «nei giudizi penali torneranno in pompa magna tutte le tecniche dilatorie per allungare i tempi» (detto, peraltro, da deputati contiani che sono pure avvocati). Altro che: quella appena approvata in commissione Giustizia e attesa per lunedì in aula a Montecitorio è una legge molto pesante, in base alla quale un processo per falso come quello ai carabinieri Mandolini e Palumbo potrebbe durare almeno tre anni in più. Anziché 13, ben 16 anni da imputati per un falso. E dicono che è una legge che lascia impuniti. Mah.
A parte la durata, che nel caso specifico oscilla evidentemente sul precipizio dell’irragionevolezza, resta il discorso sul merito. Ilaria Cucchi ha duramente attaccato il maresciallo Mandolini, «colpevole ma prescritto». La pensa in modo assai diverso l’avvocato Giosuè Bruno Naso, difensore del militare: a suo giudizio la Cassazione avrebbe dato «un colpo al cerchio e uno alla botte», la pronuncia sarebbe «pilatesca» giacché il giudice di legittimità avrebbe dovuto, piuttosto, «annullare senza rinvio per insussistenza del fatto» la sentenza di condanna dell’appello bis.
Interpellato dal Dubbio, Naso aggiunge: «Bastava riferirsi a quanto sancito dalla V sezione della stessa Suprema corte, secondo cui un verbale di arresto come quello compilato dal maresciallo Mandolini deve solo riguardare la privazione della libertà, e si sarebbe dovuto motivare meglio da cosa si desumerebbe che il mio assistito quella sera aveva già contezza del pestaggio». Ecco, se l’avvocato Naso avesse ragione, e se dunque in realtà Mandolini fosse innocente, riterreste tollerabile che un innocente debba restare sotto processo, per un reato di falso, più di tredici anni?