«Incontinenza divulgativa», «selezione» dei confidenti, «modalità quasi “carbonare”» di circolazione di notizie segrete: sono tutti comportamenti attribuiti dal Tribunale di Brescia all’ex pm Piercamillo Davigo, le cui scelte, secondo il collegio che lo ha condannato ad un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d’ufficio, «appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». Sono motivazioni dure quelle con le quali i giudici hanno motivato la sentenza di condanna del processo nato dalla consegna, da parte del pm Paolo Storari, dei verbali di Piero Amara a Davigo, che ha poi scelto di non seguire i canali legittimi - pur conoscendo a menadito le regole - provocando un danno non solo all’ex amico Sebastiano Ardita (parte civile al processo, difeso da Fabio Repici), indicato falsamente quale membro della presunta “Loggia Ungheria”, ma soprattutto alle indagini, di fatto ammazzate dalla scelta compiuta dai due magistrati. «Con il suo comportamento - scrivono i giudici - l’imputato ha disseminato tossine denigratorie nella stretta cerchia di frequentazioni dell’ex amico, con ripercussioni anche sul corretto funzionamento del Csm». Ma soprattutto, «se l’elusione dei binari formali aveva lo scopo di impedire la divulgazione di una notizia da mantenere segreta, il risultato ottenuto è stato quello di averla diffusa in modo incontrollato».

Le scelte della procura di Milano, afferma il collegio presieduto da Roberto Spanò, furono d'altronde corrette: non solo era necessario evitare «ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto a notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali», ma c’erano anche problemi di competenza territoriale da affrontare. Inoltre, «anche laddove si fosse inteso procedere nei modi indicati dall’imputato sulla base delle “dichiarazioni autoincriminanti" del legale - iscrivendo, quindi, almeno lo stesso Amara che si autoaccusava, ndr -, non vi sarebbe stata ragione alcuna di informare il Csm in assenza dell’iscrizione dei nominativi di magistrati, neppure in previsione di rilievi di natura disciplinare, inscindibilmente legati, nel caso di specie, a quelli penali». Di fronte al «muro di gomma» da lui denunciato, dunque, Storari avrebbe dovuto rivolgersi alla procura generale di Milano, l’unica «preposta al controllo delle disposizioni in materia di iscrizione delle notizie di reato e alla vigilanza sugli eventuali contrasti all'interno dell’Ufficio di procura».

L’incontro Davigo/Storari

Sono diversi i punti oscuri, stando alla sentenza. Tanto da non poter escludere nemmeno il dubbio che Davigo fosse a conoscenza dei verbali ben prima di aprile 2020 - data indicata come momento della consegna dei verbali - e che ci fosse una sorta di un «mentore ispiratore», come «pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Quel che è certo, secondo i giudici, è che tra Storari e Davigo «si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante». A partire dalla situazione descritta da Storari, «distonica rispetto a quella reale», facendo intendere a Davigo, «contrariamente al vero, che vi fossero resistenze rispetto all’indagine che intendeva sviluppare». All’ex pm, nonostante la grande esperienza da magistrato, era bastato poco per fidarsi: la «risonanza emotiva con cui questi aveva accompagnato il racconto» e il parere che l’ex collega Ilda Boccassini aveva di Storari. E anziché limitarsi ad ascoltare ed eventualmente consigliare il magistrato milanese, Davigo «ha cavalcato l’inquietudine interiore dell’interlocutore», convincendolo che il segreto non fosse opponibile ai consiglieri del Csm, nonostante «la strada maestra per investire il Csm della questione fosse, per sua stessa ammissione, quella di “fare un plico riservato”».

L’opponibilità del segreto

Ma il segreto era davvero non opponibile ai membri del Csm? Secondo i giudici no: se è vero che «per permettere al Csm di funzionare è necessario che i singoli consiglieri siano adeguatamente informati su ciò che devono decidere, tuttavia la materia è disciplinata da norme di rango secondario che fissano ben precisi paletti rispetto ai casi, ai modi e ai tempi in cui gli Uffici di procura sono tenuti, in deroga alle norme di carattere primario poste a tutela del segreto investigativo, a trasmettere al Consiglio atti funzionali allo svolgimento delle proprie attività». Non c’è, dunque, un diritto ad un accesso incondizionato, perché spetta alla procura decidere se omettere - o eventualmente opporsi o ritardare - «la trasmissione delle informative per esigenze investigative o per la tutela di terzi». Proprio per tale motivo «la migrazione di atti coperti da segreto deve avvenire attraverso il canale comunicativo tracciato dalle normative in materia». Nessuna prova, nel corso del processo, ha giustificato la scelta di Davigo, prima fra tutti quella di far circolare «atti riservati in assenza di passaggi formali». E anzi l’ex pm ha «allargato in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione», senza acquietarsi nemmeno dopo aver raggiunto lo scopo di «instradare il procedimento “Ungheria” nei binari della legalità» con le prime iscrizioni del 12 maggio 2020. Il tutto giustificando le proprie azioni con la necessità di spiegare il suo allontanamento di Ardita. Ma per il collegio «non vi era nessuna necessità» di giustificare «la presa di distanza dai collega Ardita»: sarebbe stato sufficiente riferire genericamente, come fatto con altri interlocutori, di «ragioni di contrasto molto gravi di cui tuttavia “non poteva parlare”». Proprio per tale motivo, secondo i giudici, le rivelazioni, «lungi da essere legittime e necessitate, sono state in definitiva finalizzate a gestire rapporti e situazioni private all’interno del Csm».

Il movente

Secondo la sentenza, Davigo ha certamente «utilizzato il tema dell’asserita appartenenza massonica per fare terra bruciata intorno al dottor Ardita», tuttavia non è possibile provare con certezza «che abbia strumentalmente ottenuto prima - e divulgato poi - i verbali di Amara con animus nocendi, ossia animato da una cosciente volontà di propalare un’accusa che sapeva mendace in ragione di personalismi o di intenti ritorsivi dovuti a dissidi insorti nel passato con l’ex amico». E «lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura a fronte dell’attacco “violentissimo... all'Ordine Giudiziario nel suo complesso”» ha «piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l’attenzione sul dott.or Ardita, poiché, come egli ha candidamente spiegato nel giustificare la gemmazione delle rivelazioni versate ai soggetti menzionati nell’imputazione, vi era “dentro al gruppo consiliare una persona che, ove fosse stata esercitata l'azione disciplinare, avrebbe avuto problemi serissimi, persino di permanenza al Consiglio». E ciò perché se gli atti fossero arrivati al Csm per vie legali il plico contenente i verbali di “Ungheria” sarebbe necessariamente approdato in Prima Commissione, all’epoca presieduta proprio da Ardita. Da qui la «scorciatoia (...) funzionale ad occultare la paternità di un’iniziativa che avrebbe inevitabilmente provocato sconquasso in seno al Consiglio, nonché pesanti ricadute sul piano penale».

«Tu mi nascondi qualcosa»

La frase «sibillina» pronunciata da Davigo ad Ardita nel corso di una riunione del gruppo “Autonomia&Indipendenza” il 3 marzo 2020 per decidere quale posizione assumere in merito alla nomina del procuratore di Roma «potrebbe far supporre che questi già all’epoca fosse a conoscenza delle dichiarazioni dell’avvocato Amara». E sembra poco verosimile, secondo i giudici, che Storari, prima di rivolgersi all’allora per lui sconosciuto Davigo non si sia consultato con qualche collega milanese, come affermato in aula. Elementi di cui non si hanno prove e che potrebbero «spalancare uno scenario significativamente diverso da quello emerso nel processo». Numerosi indizi, scrivono i giudici, «suggeriscono che il dottor Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte del dottor Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020». Ma sul punto il collegio ha preferito non dilungarsi oltre. Ma nella vicenda, sottolineano, «si è assistito ad un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti», una moria di possibili elementi di riscontro presumibilmente «avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 dalla dottoressa Contrafatto», ex segretaria di Davigo.