«In questi anni, oltre all’introduzione del processo civile telematico, sono stati fatti investimenti significativi sul fronte della digitalizzazione. Purtroppo, in non pochi uffici giudiziari, i tempi di definizione delle cause continuano rimanere sempre molto elevati». A dirlo è l'avvocata milanese Daniela Muradore, esperta di informatica giudiziaria e autrice di numerosi articoli proprio sul processo civile telematico (Pct).

Il dibattito sui tempi di definizione dei processi è quanto mai attuale. Il Pnrr, infatti, ha previsto che debbano essere abbattuti del 40 percento nel settore civile e del 25 percento nel settore penale. A ciò, ed è questo certamente l'aspetto più ambizioso del Piano, si dovrà aggiungere il completo azzeramento, per la precisione il 90 per cento, dell'attuale arretrato.

Obiettivi così impegnativi necessitano, oltre ad investimenti e modifiche delle procedure, un radicale cambio di mentalità. In altri termini, è necessario avere piena consapevolezza che non è sufficiente “informatizzare” per avere tempi celeri e migliorare la qualità e la prevedibilità delle decisioni.

“Il fattore tempo” è quanto mai essenziale. La recente riforma Cartabia sul processo civile, ad esempio, non è intervenuta nel disciplinare temporalmente una delle fasi più importanti del processo allorquando il giudice, chiusa l’istruttoria, decide di fissare l’udienza, quella di precisazione delle parti, con il deposito delle ultime difese.

Una fase che è rimasta nella piena discrezionalità organizzativa del giudicante con le ovvie conseguenze. «La tecnologia crea un vantaggio perfettibile, aiuta per un processo più “giusto”, ma nulla può sui tempi», aggiunge l'avvocata Muradore. Lo stesso Ufficio per il processo, nato per agevolare l’attività del giudice, è rimesso all'autovalutazione del magistrato. In questo scenario entrano in gioco fattori come il numero delle pendenze o la complessità delle cause trattate. Va poi aggiunto che la stratificazione dei riti, sicuramente, non ha aiutato. Non ha dato i risultati sperati l'introduzione del procedimento sommario di cognizione di cui all'articolo 702 bis nel 2009.

I cambiamenti legati alla digitalizzazione, comunque, ci sono stati. Anche “visibili”: è sparito, per citarne uno, il commesso con il carrello che trasportava i fascicoli al giudice. La domanda da porsi, allora, è che cosa non funziona. La riflessione dovrebbe partire da alcuni punti fermi, come l’obbligatorietà del deposito telematico nel processo civile avvenuta nel 2014. Come mai uffici giudiziari a parità di organico e con realtà territoriali praticamente simili hanno tempi di definizione diversi?

Proprio su tale aspetto è intervenuto recentemente Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia, con un articolo pubblicato sulla rivista online Questione giustizia. «Del resto nonostante l’accanimento dei vari governi a intervenire sulle procedure, sappiamo benissimo che non è dal rito che deriva l’efficienza, come si ricava agevolmente dalla stessa constatazione delle fortissime differenze territoriali di tempi e pendenze esistenti a livello nazionale, dove comunque opera lo stesso processo», scrive Castelli.

Ecco, dunque, l’importanza di quell'auspicato cambio di mentalità. "Le modalità organizzative possono essere le più varie e flessibili, dovendosi attagliare a materie e realtà del tutto diverse e vanno dal mini pool al gruppo per sezione, ma la realtà è che gli uffici giudiziari sono stati lasciati soli in questa avventura, con qualche iniziativa e supporto da parte di Ministero, Consiglio superiore della magistratura e Scuola della magistratura, ma senza uno stabile coordinamento sinergico che avrebbe consentito uno scambio di esperienze, la valorizzazione delle prassi virtuose, correzioni in corsa», ricorda Castelli.

Il presidente della Corte d’Appello offre una soluzione: «È necessario rivendicare che le scelte di digitalizzazione non siano patrimonio unicamente del Ministero e della sua struttura tecnica (una Dgsia che peraltro deve sempre più confrontarsi con la penuria di personale e di competenze), ma che emergano dal confronto e dalle esperienze con gli uffici giudiziari, con l’avvocatura, con il Csm e con il Consiglio nazionale forense». Spetterà al ministro della Giustizia Carlo Nordio farsi promotore di tali istanze, per dare al cittadino ‘utente’ un servizio giustizia realmente degno di tale nome.