È intesa fra Salvini, Meloni e Berlusconi per la scelta del premier dopo le elezioni politiche

Alla fine l’accordo c’è. Sono bastate poche ore - precedute però da giorni di “incomprensioni” - per trovare la quadra nella coalizione di centrodestra. E così il vertice tra Salvini, Meloni e Berlusconi ha “deliberato” che anche questa volta varrà la regola secondo la quale il partito che arriverà primo avrà il diritto di nominare il candidato premier. Il centrodestra ha deciso: chi vince sceglie il premier

L’accordo accontenta FdI col vento in poppa ma anche Lega e Fi che possono rinviare la questione a dopo il voto

Ognuno col suo simbolo, soprattutto ognuno col suo leader a fare le veci del candidato premier. Il centrodestra risolve così la grana del premier: non indicandolo. Non è pari e patta. A segnare, dopo tre ore di discussione, sono Salvini e Berlusconi che non volevano una candidatura unica. Ma i leader concordano sul fatto che a indicare il premier sia poi il partito più votato. E qui invece il punto è della leader di FdI.

Stavolta la sede del vertice è istituzionale, con tanto di battaglia di Lepanto sullo sfondo, nella sala dei Longobardi del gruppo leghista a Montecitorio. La ha voluta Giorgia, nella speranza di rendere formale, e dunque decisionale, il vertice della destra. Valle a dar torto: sono mesi che gli alleati temporeggiano, rinviano, la buttano sul conviviale ma rifiutano di dire una parola chiara. Né intendono dirla oggi. Tajani mette le mani avanti dal mattino: «Oggi si parla di programmi», che è come dire parlare degli aspetti secondari. Non che non ci siano divergenze anche su quel fronte, sia chiaro. La più vistosa è lo schieramento atlantista di FdI, tanto estremo da fare concorrenza a quello del Pd mentre i leghisti, si sa, sono molto più tiepidi. Ma anche sull'europeismo quanto a sfumature, si fa per dire, diverse non si scherza. La leader del primo partito della coalizione è rimasta fondamentalmente euroscettica, anche se in forme più sofisticate e meno rozze dei no euro stile Ital Exit, Berlusconi negli ultimi anni si è caratterizzato come sempre più europeista. La divaricazione più profonda però riguarda la connotazione fortemente centralista incisa nel dna del partito post- missino ( perché in fondo questo è FdI), opposta ai caratteri fondanti della Lega. La questione, con l'autonomia differenziata in ballo, è forse lo scoglio più insidioso, finché ci si limita ai programmi.

Ma i programmi sono il meno. Il guaio sono i soliti due punti in discussione: l'indicazione del premier e la composizione delle liste. Berlusconi, alla vigilia, ha fatto filtrare i suoi dubbi sulla candidatura della sorella d'Italia: potrebbe spaventare i moderati. Non che si tratti solo di un alibi: l'effetto LePen è un rischio reale e lo è anche, dal punto di vista degli alleati, quello dell'altro temuto effetto, il ' band wagon', in base al quale gli elettori, con un candidato premier ufficialmente in campo, sono spinti a concentrare il voto su quel nome. Ma la motivazione principale che spinge Berlusconi e Salvini a non andare oltre la formula per cui a indicare il premier sarà il primo partito è semplicemente il prendere tempo. A urne chiuse si vedrà e le promesse della vigilia peseranno quanto una piuma. Già il primo partito, in fondo, è una formula che offre un margine di ambiguità: si intende quello con più voti o quello con il gruppo parlamentare più numeroso? Nel secondo caso, infatti, l'unificazione dei gruppi forzista e leghista ribalterebbe probabilmente il risultato elettorale. Proprio questa minaccia moltiplica la tensione anche sul secondo fronte: quello della composizione della lista maggioritaria. Se si seguisse il metodo del 2018 FdI, che nei sondaggi ha da sola più voti degli altri due partiti essi insieme, incasserebbe il 50 per cento e passa dei seggi. Se invece si dividessero i seggi per tre, a prescindere dai sondaggi, la rappresentanza Lega- Fi sarebbe ben più folta e per Giorgia il rischio di ritrovarsi primo partito della destra nel Paese ma secondo gruppo in Parlamento si moltiplicherebbe.

Sullo sfondo però campeggia una divisione più essenziale, dunque anche più radicale. Giorgia Meloni deve fare il possibile per difendere la logica maggioritaria e il bipolarismo. Solo in un sistema politico tendenzialmente bipolarista non dovrebbe temere la sua principale debolezza, l'essere cioè un partito che non può giocare a tutto campo e dunque sempre sotto ricatto di alleati che, come si è visto in questa legislatura, possono muoversi con ben altra libertà d'azione. Il braccio di ferro è su premier e seggi ma a maggior ragione su due visioni se non opposte certo molto diverse. Per ora l'affondo di Giorgia Meloni non sembra aver ancora sfondato del tutto.