L’autorevole parere redatto nei giorni scorsi dal professor Sabino Cassese, su richiesta della difesa del presidente della Giunta regionale della Liguria, Giovanni Toti, ai domiciliari dal 7 maggio scorso, è stato oggetto di alcuni attacchi. In prima fila nel criticare il documento di Cassese Il Fatto Quotidiano, secondo il quale, prima di ogni cosa, si butta nel cestino l’articolo 3 della Costituzione, a proposito dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il presidente della Liguria viene considerato un privilegiato, un aristocratico d’altri tempi, una sorta di “Marchese del grillo”. Una vera e propria “capriola costituzionale” attribuita dal Fatto alla cosiddetta “dottrina Cassese”, la quale, addirittura, mirerebbe a smontare e a riporre in qualche scantinato le scritte presenti nelle aule dei Tribunali – “la legge è uguale per tutti” – per far “capitolare” uno dei principii su cui si fonda la nostra Carta Costituzionale. Insomma, il contributo scientifico di Cassese è un tentativo poco incisivo per avvalorare lo schema difensivo del presidente della Liguria, secondo il quale Giovanni Toti dovrebbe ritornare ad essere un cittadino (e un amministratore pubblico) libero.

La critica – durissima, per non dire feroce – avverso il parere di Sabino Cassese si sofferma, però, molto superficialmente su quanto sostenuto dall’emerito della Scuola Normale di Pisa e della Consulta, con un inevitabile e ossessivo ritorno al passato, ai tempi di Berlusconi. Argomentazioni in punta di diritto, quelle del professor Cassese, con richiami precisi alla Costituzione, alla giurisprudenza della Corte costituzionale e al codice di procedura penale, alle quali si controbatte rifacendosi alla commedia italiana, al film “Il caimano” d Nanni Moretti, tirando in ballo la sacralità dell’investitura popolare.

Soffermiamoci proprio sul tema dell’elettività che sta a cuore al giornale di Marco Travaglio. La parte centrale del parere del professor Cassese, nei paragrafi 4 e 5 (cinque delle nove pagine totali dello scritto), tiene conto della figura dell’eletto. La varietà dei compiti, sostiene Cassese, «attinenti alle funzioni legislativa e amministrativa, oltre che ai rapporti con altri soggetti, nazionali e transnazionali, richiede una continuità delle varie attività del Presidente, attività che implicano la presenza».

Tenere conto delle criticità - ma anche dei danni arrecati alla collettività - che si verificano quando un ente importante come la Regione viene privato della sua guida è un’idea così peregrina? Assolutamente no. Cassese rileva che «un impedimento non temporaneo impedisce lo svolgimento di funzioni pubbliche di cui il presidente della Giunta è investito, produce effetti sul funzionamento di un ente pubblico rappresentativo come la Regione, bloccandone l’attività, produce effetti su numerosi altri soggetti. Dunque, il bilanciamento richiesto all’autorità che adotta le misure cautelari deve tener conto necessariamente non solo della gravità dei fatti, ma anche degli effetti che si producono, direttamente e indirettamente, sul buon andamento della pubblica amministrazione, che richiede la continuità dell’attività amministrativa, nonché sul rispetto della volontà popolare manifestata con la scelta del presidente “per diretta investitura popolare”».

Snodo fondamentale dell’analisi di Sabino Cassese è la valutazione fatta dal Gip, che, come osserva il giudice emerito della Corte costituzionale, «si è limitato a considerare che la misura cautelare fosse “proporzionata alla gravità dei fatti e adeguata in relazione al grado elevato di esigenze cautelari da soddisfare”, giungendo alla conclusione che “l’applicazione di misure cautelari meno afflittive appaiono, allo stato, del tutto inadeguate rispetto alle esigenze cautelari tuttora presenti” e che quindi quella adottata “appare proporzionata alla gravità dei fatti e adeguata in relazione al grado di esigenze cautelari da soddisfare”». Di qui il richiamo alla giurisprudenza della Corte costituzionale, per cui «la misura adottata non risponde al criterio della ragionevolezza e proporzionalità desunto dal giudice costituzionale dall’articolo 3 della Costituzione e che quindi la misura cautelare adottata appare per questo motivo irragionevole, dovendo necessariamente il giudice rispettare l’obbligo di operare una ponderazione tra la gravità del reato, l’esigenza di continuità del funzionamento degli apparati pubblici, il rispetto della volontà popolare esercitata attraverso le elezioni e i diritti dei terzi che rimarrebbero coinvolti dalle eventuali dimissioni rese necessarie per il carattere non temporaneo dell’assenza del titolare di un organo di vertice della regione, che gli impedisce lo svolgimento delle funzioni pubbliche di cui è investito». La Costituzione va richiamata per intero. Il quarto comma dell’articolo 48 è chiaro: «Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».

Il voto democratico, dunque, è ancora un bene prezioso e difendere la volontà degli elettori non è reato. Siamo in Italia, non nella Russia di Putin.