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GIUDICI DI CASSAZIONE
La Cassazione mette un punto fermo in tema di impugnazioni: quando due gradi di giudizio di merito giungono alle stesse conclusioni, il cosiddetto caso di “doppia conforme”, il ricorso in sede di legittimità non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sui fatti. In assenza di vizi macroscopici, la Suprema Corte non rilegge le prove né rivaluta i testimoni. È il principio riaffermato dalla Terza sezione penale con la sentenza n. 26386 del 18 luglio 2025, che ha respinto il ricorso di un amministratore di una società, condannato a un anno e sei mesi di reclusione per dichiarazioni fraudolente tramite l’uso di schede carburante false.
I giudici hanno richiamato una giurisprudenza ormai costante: la Cassazione interviene solo se emergono motivazioni illogiche o contraddittorie, non per offrire una nuova lettura degli elementi già vagliati in modo conforme da Tribunale e Corte d’appello. Nel caso concreto, entrambi i giudici di merito avevano ritenuto pienamente provata la frode fiscale. Secondo gli ermellini, le censure difensive peccavano di genericità intrinseca ed estrinseca.
La vicenda nasce da centinaia di schede carburante utilizzate come se fossero fatture, ma in realtà compilate con dati fittizi. Secondo l’accusa, servivano a gonfiare i costi della società, creare crediti IVA e ottenere indebitamente rimborsi di accise sul gasolio. Testimoni e gestori dei distributori hanno riferito che i rifornimenti reali erano solo sporadici e di gran lunga inferiori rispetto a quelli indicati sulle schede. Le firme e i timbri apposti sono stati disconosciuti. Sulla base di queste prove, i giudici hanno quantificato l’indebito rimborso in oltre 46 mila euro, confermando anche la confisca di beni fino a 150.508 euro.
La difesa aveva puntato sulla legittimità delle indagini, sostenendo che fossero state condotte da funzionari delle Dogane, incompetenti per materia su IVA e imposte sui redditi. Una linea giudicata infondata: la Cassazione ha chiarito che, poiché gli accertamenti erano stati svolti «su specifica delega del pubblico ministero», non vale il limite settoriale che normalmente circoscrive l’azione degli organi di polizia giudiziaria specializzati. In questi casi, il pubblico ministero può incaricare tali organi di svolgere indagini anche fuori dal loro ambito ordinario, e gli atti così raccolti restano pienamente utilizzabili in sede penale.
Sul punto, viene evidenziato che «il pubblico ministero può delegare a organi di polizia giudiziaria a competenza limitata (come i funzionari dell’Agenzia delle Dogane) specifiche attività d’indagine anche al di fuori del loro settore istituzionale; gli atti così compiuti sono utilizzabili nel processo penale. I limiti settoriali di cui all’art. 57, co. 3, c.p.p. non precludono la delega ex art. 370 c.p.p. Né l’eventuale “incompetenza” amministrativa dell’ufficio, rilevante nel contenzioso tributario, travolge la prova penale acquisita su delega del pubblico ministero e formata in dibattimento».
La Suprema Corte ha inoltre ribadito che l’eventuale vizio di incompetenza di un ufficio dell’amministrazione finanziaria riguarda il contenzioso tributario e non si traduce in inutilizzabilità della prova nel processo penale, quando questa si è formata correttamente in dibattimento. In questo caso, il funzionario doganale ha deposto come testimone in aula, sotto giuramento, e i documenti sono stati richiamati solo come supporto alla memoria.
Respinte anche le doglianze dell'asserito travisamento di alcune prove: per configurarsi, ha ricordato la Corte, serve un errore «macroscopico e manifesto», tale da smontare l’intero ragionamento dei giudici di merito. Circostanza che qui non è emersa. Al punto che la Cassazione evidenzia: «Per aversi vizio di travisamento della prova è necessario, insomma, che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione (o di altro elemento di prova) e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori eventualmente commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima». Il ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.