«Non c’è né giorno né minuto che non pensi a mia figlia Diana. Anche se non sapevo di essere incinta l’ho accettata, ed è stato un regalo per me. Io non ho mai voluto far del male a mia figlia, non ho voluto mai ammazzare mia figlia, non mi è passato mai dalla mente, non è stata una cosa premeditata, non pensavo che mai nella mia vita potesse avvenire una cosa del genere. Sto già pagando il mio ergastolo perdendo la mia bambina». Isolata, umiliata, picchiata, abusata. Si descrive così per dieci minuti, in aula, Alessia Pifferi, la madre accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi, lasciata da sola in casa per sei giorni. Parole che la donna pronuncia prima di sentire il pm Francesco De Tommasi chiedere la sua condanna all’ergastolo, ripercorrendo la tesi della procura sulla morte della sua bambina. Una morte che, stando al magistrato, non avrebbe affatto scalfito la donna, descritta come egoista e assolutamente consapevole delle proprie azioni.

«Vi chiedo di dichiarare Pifferi responsabile dell’uccisione volontaria di sua figlia Diana commentando il reato più grave che una madre può macchiarsi», ha detto rivolgendosi alla Corte di assise di Milano. «Non riesce a sopportare il peso di una responsabilità che le impedisce di vivere in spensieratezza. Non ha coraggio di ucciderla, è vigliacca e lascia al destino il compito di sbarazzarsi della figlia», ha detto argomentando sulla sussistenza dell’aggravante della premeditazione. Per il pm Pifferi «non merita alcuna attenuante» perché «il fatto non ha nessuno tipo di giustificazione» e nel corso del processo «ha recitato con arroganza ed egocentrismo».

Prima di lasciarle la parola, l’avvocato di Pifferi, Alessia Pontenani, ha chiesto alla Corte di poter riaprire la perizia psichiatrica che l’ha giudicata capace di intendere e di volere, alla luce delle nuove prove raccolte dalla difesa sul disagio psichico che avrebbe accompagnato la donna sin dalle scuole elementari. Una richiesta rigettata dalla Corte, che ha però ammesso una serie di documenti, tra cui le pagelle che attestano la necessità di un insegnante di sostegno. «Dai sei agli undici anni Pifferi era seguita dai servizi di neuropsichiatria infantile territoriale», ha sottolineato Pontenani, producendo i documenti acquisiti al Policlinico. «Emerge una diagnosi funzionale, vengono indicati ritardi cognitivi gravi e turbe psichiche, sulla base di test ed esami. Era inappetente e a undici anni usava ancora il ciuccio». La difesa ha sottolineato come «le conclusioni della perizia si basano solo sul famoso “test della simulazione”, essendo stata Alessia definita una “simulatrice”, ma il test non può essere fatto su chi ha problemi cognitivi». Per il pm, però, non basta: Pifferi va giudicata oggi e «in questi anni è migliorata, forse non ha il massimo del quoziente intellettivo, ma sa far funzionare la mente».

Pifferi ha raccontato la sua infanzia, affermando di essere stata violentata da bambina. «Sono sempre stata una bambina isolata - ha sottolineato -. Non avevo amici della mia età. Mio papà purtroppo aveva un carattere un po’ violento, a volte picchiava anche mia mamma e io assistevo a queste sceneggiate. Ho subito un abuso sessuale, avrò avuto dieci, undici anni, ma non l'ho mai detto alla mia famiglia per paura di non essere creduta e per vergogna». Ad abusare di lei sarebbe stato un vicino di casa, di cui ha fatto il nome. «Io vivevo con pochissimi soldi - ha aggiunto -. Tutti gli uomini che ho avuto mi prendevano in giro e giocavano con me».

Con la sorella, oggi parte civile al processo, «non abbiamo mai avuto buoni rapporti sin da che ero piccola e mi ha sempre odiata e non ne capisco ancora oggi il perché». E nessuno, in famiglia, le ha mai parlato dei suoi problemi psichici: «Se l’avessi saputo penso che mi sarei curata e che oggi non ci troveremmo qui in una situazione così brutta. L’unica che mi ha aiutato è la mia avvocatessa Pontenani che mi sta vicino e mi aiuta. Mia sorella non la vedevo mai e non mi ha mai aiutato, tante volte ho chiamato mia mamma e chiesto aiuto, ma lei non è mai salita».

In carcere, inoltre, è stata picchiata dalle altre detenute. «Non c’è né giorno né minuto in cui non penso a mia figlia Diana - ha sottolineato -, sono stata anche picchiata dalle detenute a San Vittore e messa in isolamento protettivo. Per cui quando devo uscire dalla cella per qualsiasi motivo prima devono chiudere le altre detenute e poi forse mi fanno uscire dalla cella. Mi capita di sentire la notte le detenute che urlano dalle finestre “mostro e assassina, devi morire”. Ma non sono un’assassina, non sono un mostro, sono solo una mamma che ha perso sua figlia».

Parole che non hanno impietosito il pm, secondo cui Diana ha vissuto «un’agonia lunga un’eternità», subendo «sofferenze atroci», «senza potersi muovere e nutrirsi. Dobbiamo renderci conto e prendere atto delle atroci sofferenze che questa bambina ha sofferto, della paura che ha provato, della fame e della sete, tanto che presa dai morsi dalla fame ha mangiato una parte del pannolino. Dobbiamo confrontarci con quello che è lo stato in cui Diana Pifferi è stata trovata il 20 luglio 2022 - ha aggiunto il pm -.

Dobbiamo avere il coraggio di farlo. Chiedere di essere comprensivi in una vicenda di questo tipo - ha proseguito - è un azzardo». La piccola Diana, ha aggiunto, «si è spenta lentamente, all’esito di un processo di progressivo aggravamento delle funzioni vitali. Si trovava da sola a casa, perché lei, la madre, era corsa dal suo compagno e l’aveva lasciata là da sola». Per De Tommasi, Pifferi «racconta bugie, le utilizza per eludere a suo modo gli ostacoli della propria esistenza, è una persona che ha tanti obiettivi egoistici e desideri insoddisfatti. Non ha nessuna difficoltà a dire ciò che non è vero» ed era «pienamente consapevole di quello che stava facendo minuto dopo minuto. Oggi ci è venuta a dire che non è un’assassina, ma allora perché ha voluto sempre giustificare con tutti che la bimba non era sola in casa? Avrebbe potuto fare tante cose per salvare la figlia, contattare la polizia, la sorella Viviana, ma non è tornata a casa per stare con il suo compagno».