In Italia l’autorità giudiziaria abusa delle intercettazioni senza alcun valido motivo e, come se non bastasse, non esistono rimedi interni alla nostra legislazione per opporsi. È per questo motivo che la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo (Cedu) condanna il nostro Paese attraverso la sentenza Contrada contro Italia, che riguardava la liceità dell’intercettazione delle conversazioni telefoniche del ricorrente e la perquisizione della sua abitazione e di altri beni. Parliamo in particolare dell’operazione svolta dalla Procura generale di Palermo – titolari l’allora Procuratore generale Roberto Scarpinato (ora senatore del Movimento 5Stelle e componente della commissione Antimafia) e i sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio – la quale aveva disposto la perquisizione non solo dell’attuale abitazione dell’ex 007 Bruno Contrada, ma anche di altri due immobili, perché – scriveva la Procura – «esiste fondato motivo di ritenere, sempre sulla base di elementi acquisiti in questo procedimento, che Contrada abbia ancora la disponibilità di documenti». Contrada, però, non faceva parte di alcun procedimento penale. Ovviamente fu un buco nell’acqua.

Come rende noto l’avvocato Stefano Giordano del Foro di Palermo, il quale, assieme alla compianta avvocata Marina Silvia Mori del Foro di Milano, aveva promosso il ricorso, la Cedu ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della privacy, vita privata e corrispondenza) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo per quanto riguarda l’intercettazione e trascrizione delle comunicazioni telefoniche di Contrada.

La Corte Europea dei Diritti Umani sottolinea che la legge italiana non offre garanzie adeguate ed effettive contro gli abusi nei confronti degli individui sottoposti a misura di intercettazione, ma che, poiché non sono indiziati né imputati della commissione di un reato, non sono parti nel procedimento. Sempre la Cedu osserva che per i malcapitati non è possibile rivolgersi all'autorità giudiziaria per un effettivo controllo della liceità e della necessità della misura e ottenere un risarcimento adeguato. In sostanza, si condanna un istituto che, così come di fatto applicato dall'Autorità giudiziaria, rappresenta la forma più inquietante dell'autoritarismo statale. Un principio reazionario che è l’opposto di quello liberale e garantito dalla nostra Costituzione.

L’avvocato Stefano Giordano preannuncia che vorrebbe avere un incontro con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, visto che questa sentenza della Cedu riguarda un tema molto dibattuto che dovrebbe essere a lui stesso sensibile. «Siamo molto soddisfatti, perché - al di là del caso concreto - la Corte ha individuato all'unanimità un vizio molto grave della legislazione italiana in materia di intercettazioni. La palla passa dunque alla politica, affinché riformi in senso liberale l'intera materia delle intercettazioni», commenta l’avvocato. Ricordiamo che nel 2021, proprio a seguito del ricorso presentato dall’avvocato Giordano, ha chiesto allo Stato italiano di fornire risposta ad alcuni specifici quesiti, riguardanti la chiarezza e la precisione della legge italiana in materia di perquisizioni e intercettazioni; la necessità e la proporzionalità delle attività investigative svolte nel caso concreto; nonché la sussistenza nell'ordinamento interno di strumenti processuali idonei a contestare quelle attività. Le risposte non hanno soddisfatto e la Cedu, all’unanimità, ha emesso la condanna.

Nel caso specifico, ricordiamo che tre sono state le perquisizioni effettuate nel giro di breve tempo a Bruno Contrada. L’ultima, risolta con l’ennesimo nulla di fatto, risale al 29 giugno del 2018. Documenti sequestrati? Un album fotografico con foto della Polizia di Stato, alcuni atti processuali pubblici, degli appunti per una bozza di lettera da inviare al magistrato Nino Di Matteo per alcuni chiarimenti. La perquisizione, come detto, era stata disposta dalla Procura generale di Palermo. Le altre due precedenti, avvenute nel giro di pochi giorni, erano state disposte dalla Procura antimafia di Reggio Calabria nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ’ndrangheta risalenti agli anni Novanta. In particolare, su un presunto rapporto di Contrada con Giovanni Aiello, risalente a circa 40 anni fa, quando dirigeva la squadra mobile di Palermo, dal 1973 al 1976.

L’ex agente Giovanni Aiello, suo malgrado conosciuto come “faccia da mostro”, è morto di crepacuore qualche anno fa, era considerato una sorta di “anima nera” che, a parere di taluni magistrati – o meglio secondo un teorema però rimasto senza prove – sarebbe stato dietro a ogni strage di mafia degli ultimi decenni. Eppure non è mai stato rinviato a giudizio, ogni indagine è stata puntualmente archiviata per mancanza di qualsiasi indizio. Ma “faccia da mostro” rimane. «Contrada – aveva denunciato l’avvocato Stefano Giordano – continua a essere periodicamente sottoposto ad atti invasivi della sua vita personale e del suo domicilio (perquisizioni, intercettazioni), senza che a suo carico risulti essere pendente alcun procedimento penale».

Per questo motivo era stato introdotto un nuovo ricorso avanti alla Cedu per denunciare l’illegittimità sul piano convenzionale di una normativa (come quella italiana) che consente alla Pubblica Autorità di sottoporre indiscriminatamente ad atti invasivi della vita personale e del domicilio (quali perquisizioni, sequestri e intercettazioni) soggetti che non siano parte (né in veste di indagato, né in quella di persona offesa) di un procedimento penale e che si trovano per di più privati, in tal modo, delle garanzie che le norme interne e convenzionali pongono a tutela di chi sia formalmente accusato di un reato. I giudici di Strasburgo hanno emesso la condanna. Una questione che il Parlamento dovrà affrontare, magari attraverso l’introduzione di strumenti che permettano agli individui di difendersi da tali abusi.