Reclutare nuovi magistrati, nuovi cancellieri: è una rincorsa continua. In tutti gli uffici giudiziari. Si fa fatica a bilanciare, con le assunzioni, il naturale invecchiamento del personale, togato e amministrativo. Ma ieri il guardasigilli Carlo Nordio ha ricevuto una buona notizia: «Grazie all’intesa tra ministero dell’Interno e ministero della Giustizia, sono state aggiornate», fanno sapere dal Viminale, «le aliquote del personale delle forze di polizia in servizio presso le sezioni di Polizia giudiziaria degli uffici di Procura. Contestualmente alla nuova ripartizione sono aumentati gli operatori impiegati, che salgono a 5.357 unità, nel rispetto del rapporto di proporzione con il numero dei magistrati previsti negli uffici giudiziari: due operatori per ogni magistrato in sede ordinaria e tre operatori per ogni magistrato in sede di Procura distrettuale». Si tratta, chiarisce il ministero guidato da Matteo Piantedosi, di un intervento «atteso da tempo, con il quale le tabelle vengono adeguate al mutato scenario che negli anni si era andato delineando a seguito dell’istituzione di nuove Procure e delle rimodulazioni organiche dei magistrati inquirenti».

Si può dire che la dotazione assicurata ai magistrati requirenti di tutta Italia costituisca un raro caso di “pieno organico” non solo per il sistema giudiziario ma per l’intero apparato pubblico italiano. Gli stessi procuratori e i loro sostituti sono, in alcune sedi in particolare, come alcuni uffici inquirenti del Sud, ancora insufficienti. Oltretutto il Csm è alle prese con un bel po’ di “lavoro arretrato” relativo alla nomina non solo e non tanto dei direttivi, cioè dei capi delle Procure ordinarie, distrettuali e generali, ma soprattutto dei semidirettivi, cioè degli “aggiunti”: in tutto a Palazzo Bachelet ci sono, solo per i magistrati dell’accusa circa 150 tra incarichi, assegnazioni e trasferimenti da smaltire. Ma il punto è un altro. Il punto è che il sistema inquirente resta, anche grazie alle nuove dotazioni assicurate dal Viminale, tra i pochi apparati dello Stato forti e numericamente adeguati. Il che rincuora ma pone anche interrogativi di varia natura, e uno soprattutto: cosa succederebbe nel momento in cui dovesse entrare in vigore la separazione delle carriere e i pm avranno come previsto dal ddl Nordio, un Consiglio superiore tutto loro?

È la vera incognita, ben presente a tutti, nella riforma costituzionale della giustizia. È l’unico quesito che susciti una qualche inquietudine. Con la scissione fra ordine giudicante e magistratura requirente, ci sarà, come prevede l’articolo 3 della modifica che, a gennaio, sarà votata in prima lettura a Montecitorio, un Consiglio superiore della magistratura requirente, parallelo a quello dei giudici, presieduto dal Capo dello Stato e di cui farà parte, di diritto, il pg della Cassazione. Gli altri componenti saranno “estratti a sorte, per un terzo, da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, e, per due terzi, tra i magistrati requirenti, nel numero e secondo le proce- dure previsti

dalla legge”. Come ha ricordato una settimana fa, su queste pagine, il professor Paolo Ferrua con una magistrale lezione, assai apprezzata anche nel direttivo Anm riunitosi due giorni dopo, sganciare da tutto, cioè dal resto della magistratura civile e penale, i pm comporta il rischio di creare un corpo dello Stato separato, e non semplicemente autonomo, da ogni altro potere. Non sarà assoggettato, doverosamente, all’Esecutivo. Sarà autogovernato da un organismo in cui i pm avranno, come pure è giusto, la maggioranza assoluta. Sarà dotato di un proprio apparato di polizia giudiziaria. E dulcis in fundo, sarà orientato non solo al perseguimento dei reati ma, come prevede la norma introdotta con la riforma penale di Cartabia, anche alla scelta, in capo ai procuratori della Repubblica, delle priorità nel contrasto delle condotto illecite. Si, è vero che al Parlamento, sempre con l’articolo 1 comma 9 di quella riforma, è data facoltà di definire “criteri generali”, ma saranno i procuratori della Repubblica, ciascuno nel proprio circondario, a “garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale” con l’individuazione di “criteri di priorità trasparenti e predeterminati”, da indicare nei loro “progetti organizzativi”, al fine di “selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”. Non si può insomma ignorare il rischio che, con la separazione delle carriere, nasca una Repubblica autonoma dei pubblici ministeri.

Non vuol dire che, sulla riforma costituzionale della giustizia, è meglio fare dietrofront. Ma che, di certo, l’ordinamento giudiziario avrà bisogno di raffinati bilanciamenti per evitare che la magistratura dell’accusa si trasformi in un superpotere incontrollato, ai limiti dell’anarchia. Uno strumento potrà essere offerto dal riconoscimento in Costituzione del ruolo dell’avvocato, sul quale Nordio si è impegnato lo scorso 6 dicembre alla celebrazione promossa dal Cnf per i 150 anni degli Ordini forensi. Di certo una geometria costituzionale che comprenda – con la magistratura requirente staccata per la prima volta dai giudici civili (che sono la stragrande maggioranza dei magistrati italiani, ricordiamolo) e penali – anche gli avvocati, può assicurare un certo bilanciamento, un migliore equilibrio anche nelle quotidiane dinamiche processuali. Ma potrebbe non bastare. Potremmo trovarci di fronte a un corpo anomalo in cui i 5.357 agenti di polizia giudiziaria appena assicurati dal Viminale alle Procure si saldano con i procuratori e i loro sostituti in un’alleanza dalla forza smisurata e incontrastabile. Non che oggi l’equilibrio, nel sistema penale, sia da mondo dei sogni. Ma qualsiasi rischio di creare sbilanciamenti imprevedibili andrà tenuto sotto controllo prima che degeneri, appunto, in anarchia.