C’è il rischio che la modifica costituzionale per la separazione delle carriere si trasformi in una riforma inutile? La domanda non sembra oziosa, se si parte dal presupposto che uno degli obiettivi principali del legislatore è rinnovare il Csm con il metodo del sorteggio e se, contemporaneamente, si analizzano nel dettaglio le tempistiche di approvazione della riforma.

Quello che sappiamo di certo al momento è che il ddl Nordio concluderà la fase di prima deliberazione con l’approvazione al Senato entro il mese di luglio. A settembre tornerà di nuovo alla Camera, a cui seguirà un ultimo ritorno a Palazzo Madama. Se è vero che ai fini della seconda deliberazione si passa direttamente alla votazione finale senza esaminare gli articoli (non sono ammessi emendamenti, questioni pregiudiziali e sospensive, né richieste di stralcio, né ordini del giorno), è altrettanto vero che se governo e maggioranza non vogliono allungare troppo i tempi, devono riuscire a chiudere l’iter parlamentare prima che inizi la discussione sulla legge di Bilancio.

Altrimenti si rischia di arrivare al voto finale a gennaio 2026. Il che significherebbe, procedure alla mano, procrastinare il referendum dalla data auspicabile di inizio primavera all’inizio della stagione estiva. Ipotesi che creerebbe diversi problemi a Nordio e Meloni, a partire dal dissolversi sembre più profondo dell’ effetto “luna di miele”: più ci si avvicina al rinnovo del Parlamento, più la vittoria referendaria è a rischio per un calo fisiologico dei consensi nei confronti dell’Esecutivo e, di conseguenza, rispetto a qualsiasi riforma ad esso associata.

Ma il timore più grande che s’intravede dietro il possibile allungamento dei tempi, risiede appunto nel mancato raggiungimento dell’obiettivo principale che si è prefissato chi, questa modifica costituzionale, l’ha pensata e scritta: scegliere i nuovi componenti dei due futuri Csm con il sorteggio, l’unico modo, secondo Nordio, per superare le degenerazioni correntizie. E però, per fare questo non basta vincere il referendum: occorre scrivere le norme ordinarie attuative entro un anno dall’entrata in vigore della modifica costituzionale, altrimenti continueranno ad osservarsi le norme precedenti (basta leggere quanto riportato all’articolo 8 del disegno di legge, relativo alle “Disposizioni transitorie”).

Partendo dal presupposto che l’attuale Csm scade il 24 gennaio 2027 – salvo ipotesi di prorogatio pure verificatesi in passato (quando ad esempio erano stati eletti i membri togati ma non quelli laici) –, che le elezioni per il suo rinnovo hanno luogo entro tre mesi dallo scadere del precedente Consiglio e che la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della convocazione dei rispettivi corpi elettorali avviene almeno 40 giorni prima delle elezioni, diventa davvero difficile immaginare che si possano scrivere le norme attuative in tempi utili. D’altronde bisogna considerare che andrà rimaneggiata interamente la legge istitutiva dell’organo di governo autonomo dei magistrati.

A ciò si aggiunge la circostanza per cui, secondo fonti di via Arenula, al momento al ministero non sarebbe in atto un lavoro preparatorio di scrittura di questa disciplina ordinaria attuativa. Se dunque accadesse questo, ossia se il futuro Csm venisse eletto con il metodo attuale, ci si troverebbe davanti a una sconfitta pesantissima per il guardasigilli, per la premier e per tutta la coalizione di centrodestra: non si concretizzerebbe il cuore della riforma, e cioè la sottrazione delle elezioni alle logiche di potere dei gruppi associativi dell’Anm.

A proposito del sindacato delle toghe: che ruolo potrebbe giocare nella elaborazione delle norme attuative? Ufficialmente non esiste una presa di posizione: sarebbe come ammettere che si perde la partita referendaria e al momento, tra l’altro, non alberga cupo pessimismo tra le toghe. Da parte sua, il Guardasigilli più volte ha ribadito ai magistrati guidati da Cesare Parodi la disponibilità a lavorare insieme su questo punto.

Pure fonti interne all’Anm fanno sapere che ci sarebbe la volontà di collaborare proficuamente alla stesura delle leggi di attuazione – «pur di non farci buttare il sale sulla ferita» ci dice in particolare un esponente di una corrente moderata – ; il dubbio è però che proprio il Governo, dopo l’eventuale vittoria del referendum, possa ritirare la mano tesa verso la magistratura: «in base a come vinceranno – se vinceranno – Nordio potrebbe rimangiarsi la parola, non sarebbe la prima volta» ci dice un’altra toga.

C’è anche un altro aspetto da considerare, ci spiega un altro magistrato: «Qualora una parte dell’Anm fosse d’accordo a collaborare con la scrittura dei decreti attuativi un’altra parte potrebbe accusarla di collaborazionismo con quel nemico che ha portato a casa una delle riforme più invise alla magistratura». Insomma il quadro appare complicato e pieno di incognite. Tutto dipenderà dal clima che si verrà a creare nei prossimi mesi e da come andrà a finire il referendum. A sentire tutte le parti in causa – politica, magistratura, avvocatura – assisteremo a scontri ancora maggiori e più aspri di quelli a cui abbiamo assistito fino a questo momento. Non si faranno sconti a nessuno, essendo troppo alta la posta in gioco.