«Mi hanno fatto passare l’inferno, ma alla fine la verità è venuta fuori». Esattamente sette anni dopo essere uscito in lacrime dal Senato, che aveva deciso di autorizzarne l’arresto, l’ex senatore Antonio Caridi ha potuto leggere le motivazioni della sua assoluzione nel maxi processo “Gotha”. Motivazioni che escludono in toto la possibilità che ci sia stato un accordo con i clan, che pur votandolo non avrebbero ottenuto da lui alcun favore. «Il vastissimo materiale probatorio - si legge nelle motivazioni depositate oggi - non consente di condividere il teorema accusatorio» secondo il quale Caridi, ex senatore di Forza Italia, «avrebbe fatto parte di una componente riservata della ‘ndrangheta, con il ruolo dell’uomo di mezzo, preposto ad assicurare, una volta introdottosi nei gangli istituzionali - del Comune prima, della Regione poi ed infine del Parlamento della Repubblica - grazie al consenso elettorale raggiunto attraverso uno scambio elettorale politico-mafioso, il perseguimento costante degli interessi della ‘ndrangheta, condizionando la gestione della cosa pubblica in favore degli interessi particolari degli accoliti». Parole messe nero su bianco dal Tribunale di Reggio Calabria, che a luglio 2021 ha pronunciato 15 condanne e 15 assoluzioni. Tra queste quella di Caridi, che però ha trascorso 18 mesi in carcere prima di essere dichiarato innocente, dopo il voto del Senato che accordò alla Dda di Reggio Calabria l’arresto del politico.

Le accuse

L’ex senatore – difeso dagli avvocati Valerio Spigarelli e Carlo Morace - era finito sotto inchiesta con l’accusa di fare parte di una associazione segreta, capeggiata dall’ex parlamentare del Psdi, Paolo Romeo, condannato invece a 25 anni, con l’obiettivo di condizionare la politica cittadina e per avere agevolato le cosche De Stefano e Gullace, in cambio di sostegno elettorale. Con Caridi, sono state assolte altre tredici persone, tra i quali l’ex presidente della Provincia Giuseppe Raffa (Fi). Condannati, invece, oltre a Romeo, indicato come capo e promotore dell’associazione segreta; anche l’avvocato Antonio Marra; Marcello Cammera (2 anni); il sacerdote Giuseppe Strangio (9 anni e 4 mesi); Giovanni Zumbo (3 anni e 6 mesi); Antonio Barbieri (3 anni e 4 mesi); Domenico Cartisano (20 anni); Francesco Chirico (16 anni), cognato del boss Paolo De Stefano; Vincenzo Delfino (5 anni); Antonino Gioè (16 anni e 6 mesi); Domenico Giustra (2 anni); Francesco Minniti (2 anni e 8 mesi) e Paolo Richichi (3 anni e 6 mesi). L'arresto di Caridi era stato votato dal Senato esattamente sette anni fa, il 2 agosto 2016, una decisione presa col voto segreto e appoggiata da 154 senatori favorevoli alla richiesta avanzata dalla Dda di Reggio Calabria, contro i 110 contrari e 12 astenuti. Un voto preceduto da ampie polemiche e scontri, nonché dalla dichiarazione d’innocenza dello stesso Caridi - che poi si definì al Dubbio «tradito dalla politica» -, che aveva condensato su due pagine il proprio pensiero. «Io sono e mi dichiaro innocente e sono sicuro che questo mi verrà riconosciuto in sede giudiziaria», aveva affermato in aula. Negando di aver mai avuto rapporti «o stipulato patti con la ‘ndrangheta», né di aver mai partecipato ad associazioni segrete. «Non c’è un fatto – aveva evidenziato - che dimostri questa infamante accusa. Mi si accusa di aver avuto da sempre l’appoggio delle cosche eppure si dimenticano le tornate elettorali in cui non sono stato eletto oppure ho raccolto un numero di voti inferiore ad altri».

Le motivazioni della sentenza

E a dargli ragione, ora, c’è una sentenza, arrivata sette anni dopo l’arresto e due anni dopo la sua assoluzione, secondo cui sono rarissime le conversazioni con l’avvocato Paolo Romeo, ritenuto dal Tribunale di Reggio Calabria «grande stratega della criminalità organizzata», e circoscritte alle elezioni comunali del 2002. E la conclusione del Tribunale è che «gli importanti risultati politico elettorali già raggiunti dal Caridi alle precedenti elezioni fossero stati il frutto della propria attività politica, a cui in nessun modo aveva preso parte il Romeo». Il teorema accusatorio si basa su un’unica conversazione, quella del 20 aprile 2002, quando Romeo prima e Giuseppe Valentino dopo estendevano a Caridi il disegno di costituzione degli uomini a disposizione della ‘ndrangheta all’interno delle istituzioni. Ma in quella conversazione, attinente esclusivamente a temi di natura politica (l’accordo preelettorale tra l'Udc, Forza Italia ed An per la spartizione delle cariche fiduciarie), emergeva solo il timore di Caridi di cosa pensasse degli accordi proposti da Romeo il candidato sindaco, cioè Giuseppe Scopelliti, «secondo la più che legittima considerazione (non espressa dal Caridi) che certamente al sindaco sarebbero toccate le nomine assessoriali e di vicesindaco, e che in quell’accordo appariva come un illustre assente». Argomenti, scrivono i giudici, «che consentono di affermare che sino al 2002 Caridi Antonio Stefano era stato un battitore libero, estraneo ai disegni di Paolo Romeo. Certo nel corso della stessa conversazione il Romeo non usava mezzi termini per far comprendere al Caridi che Scopelliti Giuseppe era solo uno strumento nelle sue mani in quella fase politica - continua la sentenza -, che ove non avesse assecondato i disegni del Romeo sarebbe andato a casa, circostanza alla quale il Caridi non replicava alcunchè, aderendo pertanto alla proposta politica del Romeo nello stringere l’alleanza politica. Tuttavia la natura esclusivamente politica degli argomenti impiegati nella conversazione in questione, sia da parte del Romeo, sia da parte del Valentino, esclude di poter affermare che il Caridi venisse messo al corrente della vera finalità e natura del disegno del Romeo. Non si rinvengono, oltre a quella appena citata, ulteriori conversazioni dirette tra Paolo Romeo e Antonio Stefano Caridi». E mai ritorna il nome di Caridi, «se non per commenti assolutamente neutri e di natura esclusivamente politica». Non vi sono elementi pertanto, tratti dalle intercettazioni, per poter affermare che il Caridi prendesse parte alla struttura riservata della ‘ndrangheta».

Contatti con la ‘ndrangheta, ma nessun patto scellerato

Certo, l’ex senatore, secondo quanto scrivono i giudici, sarebbe stato un «politico spregiudicato, che in occasione delle competizioni elettorali non disdegnava di coltivare rapporti e frequentazioni con soggetti delle più importanti consorterie criminali per chiare finalità elettorali». Ma se le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia confermano il sostegno elettorale tributato a Caridi da parte delle famiglie criminali, «in ordine alla intraneità dell’imputato alle singole consorterie i riferimenti sono tutti generici e privi di circostanze specifiche idonee ad individuare il ruolo specifico che il politico avrebbe svolto all’interno delle singole famiglie criminali».

Nonostante i «rapporti» con soggetti intranei ai clan reggini, che «si cimentavano nella campagna elettorale per il procacciamento dei voti in occasione delle varie competizioni elettorali», in nessuna delle conversazioni «è mai emerso un accordo di scambio elettorale politico mafioso, né il ricorso al Caridi per trarre utili in favore delle consorterie o degli accoliti e l'impegno del politico in tale direzione». Tant’è che anche la conversazione captata in casa del boss di San Luca Giuseppe Pelle, in occasione delle regionali del 2010, fa emergere l’assenza di un patto di scambio politico mafioso: Pelle e Antonio Talarico, infatti, dialogavano circa quella che poteva essere la strategia migliore per intrattenere rapporti con Caridi, concludendo che sarebbe stato necessario interporre nel rapporto un imprenditore: «Non è che si deve avvicinare con forza - si dicevano i due -, si deve avvicinare con un imprenditore, non con forza, eh. Una volta che poi c’è il filo diretto che si può andare piano piano, piano piano». La conversazione, dunque, «non lascia dubbi», scrivono i giudici: «Alcun accordo esplicito di scambio politico mafioso elettorale era stato concluso tra il Pelle ed il Caridi», in quanto altrimenti «la famiglia mafiosa non avrebbe avuto bisogno di elaborare una strategia per presentare al Caridi le richieste di favori. Peraltro veniva escluso che si dovesse operare con la forza, e cioè con il metodo della intimidazione violenta tipico della ‘ndrangheta, ritenendolo con evidenza inappropriato per le finalità del rapporto con il politico, e non è dato sapere, se anche rischioso per il timore che il Caridi potesse denunciare». E quanto alla condotta agevolatoria che Caridi, da consigliere comunale prima, da assessore comunale e regionale poi, ed infine da senatore, avrebbe posto in essere per favorire le consorterie, «non si rinvengono elementi di prova utili a suffragare il costrutto accusatorio».