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Questo articolo era originariamente destinato alla pubblicazione sul quotidiano La Repubblica Palermo. La scelta di quella sede si giustificava in relazione al fatto che l’articolo qui di seguito riprodotto costituisce una replica a una polemica alimentata nei giorni scorsi da quel giornale. Abbiamo ricevuto una risposta interlocutoria che consideriamo sostanzialmente negativa. Ringraziamo Il Dubbio per averci ospitato.
Nei giorni scorsi il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Palermo è stato investito da una polemica giornalistica, non esente da accenti sensazionalistici, sviluppatasi a margine di un confronto pubblico promosso e gestito dagli studenti. All’iniziativa partecipavano un noto magistrato meritoriamente impegnato sul fronte delle più importanti indagini antimafia e una professoressa di diritto processuale penale del suddetto Dipartimento. La polemica ha avuto a oggetto alcune osservazioni critiche avanzate – forse con un surplus di enfasi – dalla docente in questione sulla compatibilità tra il fenomeno dei Maxiprocessi e il rispetto delle garanzie riconosciute dalla Costituzione all’imputato.
Su tale confronto pubblico e sulla strumentalizzazione mediatica che ne è seguita, come docenti del Dipartimento di giurisprudenza ci limitiamo ad avanzare le seguenti considerazioni.
La prima considerazione riguarda la persistente problematicità dei Maxiprocessi. I prolemi sollevati da tale fenomenologia processuale sono storicamente risalente nel tempo, se è vero che – già a cavallo tra ottocento e novecento – in relazione ai c.d. “processi di gran mole”, si osservava che la sottoposizione a giudizio di un numero quantitativamente rilevante di imputati rendeva difficoltosa una verifica processuale sufficientemente individualizzata della responsabilità penale, con connesso rischio di semplificazioni probatorie. Per venire a tempi più recenti, uno dei padri nobili della procedura penale come Paolo Ferrua, a proposito della valenza simbolica del maxiprocesso come strumento di rassicurazione psicologica dei cittadini sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata, mette in luce la trasformazione del giudizio penale in “teatro delle ragioni di Stato”. Le frizioni che il ricorso a un simile congegno processuale determina in ordine alla garanzia costituzionale del diritto di difesa erano del resto ben noti allo stesso Giovanni Falcone, come dimostra il volume che raccoglie i suoi contributi a carattere più tecnico, intitolato Interventi e proposte (1982-1992), in cui egli ravvisa sin da subito la difficile conciliabilità tra il gigantismo processuale del Maxi e il modello del nuovo processo penale accusatorio che stava per entrare in vigore. Infine, in un convegno dell’ottobre 2016, svoltosi presso la Corte di Cassazione e intitolato “Il processo di mafia trent’anni dopo”, alcuni tra i più accreditati studiosi del processo penale hanno criticamente ripercorso tutti i nodi problematici dei processi di grandi dimensioni, in relazione ai quali non basta affermare in modo semplicistico, come ha fatto su La Repubblica Pietro Grasso, che “in quel processo ci furono 114 assoluzioni”. Ancor più fuori fuoco ci appaiono le dichiarazioni su La Stampa dell’ex magistrato Giancarlo Caselli il quale, sentendo soffiare da più parti un vento “anti-antimafia”, giudica “sconvolgente” la presa di posizione della docente palermitana. Qui evidentemente non si tratta di iscriversi al partito dei tifosi o, viceversa, dei detrattori del Maxiprocesso ma di rivendicare un esercizio della ragione pubblica che di fronte a problemi articolati e complessi rinunci a demonizzazioni o santificazioni aprioristiche.
La seconda considerazione riguarda alcune affermazioni sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia fatte da Nino Di Matteo nel contesto del seminario in questione, reperibile per chi vuole sulla pagina Facebook dell’associazione studentesca Contrariamente. Conviene citarle testualmente: “La sentenza di secondo grado ha assolto per asserita mancanza di dolo gli uomini dello Stato ma ha condannato i mafiosi e l’intermediario mafioso. Vi hanno detto, vi vogliono far credere, che i fatti sono stati smentiti, che veniva smontato il teorema dei soliti pubblici ministeri complottisti e politicizzati (…). Questo è proprio falso! Quei fatti sono lì, restano lì pesanti come pietre (c.vi nostri)”. Due brevi notazioni a margine. Innanzitutto, soprattutto chi si intesta compiti di moralizzazione pedagogica delle giovani generazioni di giuristi dovrebbe ricordare che i fatti bruti, senza colpevolezza, sono “fatti inerti” che, a norma dell’art. 27, commi 1 e 2, della Costituzione, non generano responsabilità penale. Inoltre, e ancora una volta, non si tratta di essere pro o contro la “Trattativa” ma di ribadire che i criteri di scientificità e di controllabilità intersoggettiva cui deve, per statuto, conformarsi il confronto di idee all’università non ammettono rigidi apriorismi ideologici, tesi sostenute con certezza dogmatica e contrapposizioni manichee con la pretesa di possedere Verità Potenti.
La terza considerazione è di più ampio respiro e ci interroga sul nostro ruolo di docenti impegnati nel dibattito pubblico. L’istituzione universitaria è elettivamente una sede di argomentazione razionale e di confronto critico. È cioè una sede di approfondimento in cui, come sottolinea Karl Popper, nessuno può vantare l’ultima parola e non deve trasformarsi in una sede di riproduzione di modelli di confronto dialettico da talk show televisivo in cui prevalgono l’espressione pura di emozioni, leadership carismatiche à la Weber, mitizzazione acritica di personaggi-simbolo, si tratti pure di magistrati coraggiosi distintisi per il loro impegno antimafia. In questo foro della ragione hanno pari titolo a partecipare e confrontarsi tutte le diverse voci dell’antimafia oggi compresenti sulla scena pubblica e nella discussione scientifica. Come sostiene Alfio Mastropaolo in un recentissimo articolo apparso su Il Mulino: “…chi fa antimafia in buona fede e tiene a che si faccia, dovrebbe, quale che sia il suo orientamento, mettere per prima cosa razionalmente in discussione l’antimafia stessa, le modalità di farla e i suoi obiettivi”.
Sulla base di tali premesse, come giuristi proponiamo un grande convegno universitario di respiro interdisciplinare su “Mafia e antimafia oggi” che si preoccupi di chiamare a raccolta le migliori energie intellettuali a disposizione per fare il punto su almeno tre questioni centrali. E segnatamente: il concetto, dai confini semantici evanescenti, di ‘borghesia mafiosa’; la presunta persistente tendenza trattavistica tra lo Stato italiano e le mafie; l’attuale stato di salute dell’organizzazione Cosa nostra, anche in rapporto alle altre mafie radicate sul territorio nazionale. Proprio perché niente resta per sempre identico a sé stesso, neppure la mafia, è attuale più che mai il monito di Sciascia: “Qualcosa sta mutando, qualcosa è già mutato: con buona pace di coloro che ancora non vogliono crederci. O che vorrebbero non fosse vero. (…) Così a Robespierre che parlava contro i nemici della rivoluzione, qualcuno (…) gridò: «ma ti dispiacerebbe, se non ce ne fossero più!»”.
Aldo Schiavello, professore ordinario di Filosofia del diritto
Alessandro Tesauro, professore ordinario di Diritto penale e Legislazione antimafia