In Italia è ancora possibile criticare le norme antimafia senza creare scandalo? La domanda sorge spontanea dopo aver letto un articolo di Repubblica dal titolo: “Palermo, l'accusa di una professoressa di Giurisprudenza: ‘Il maxiprocesso fu un obbrobrio’. E in facoltà è scontro con Di Matteo”.

Il pretesto è offerto da un convegno organizzato la scorsa settimana dall’associazione studentesca ‘ContrariaMente’ nella facoltà di giurisprudenza del capoluogo. A confrontarsi sul tema “Tra riforme e lotta alla mafia: cosa è cambiato dal ’92 all’arresto di Messina Denaro’ ci sono Nino Di Matteo e la docente di procedura penale Daniela Chinnici. «Rischio di essere impopolare», esordisce la professoressa ma «parlerò senza le suggestioni o emozioni di un cittadino siciliano o calabrese».

Il punto centrale che mette in evidenza Chinnici è che «dopo le stragi del 1992 assistiamo ad una svolta inquisitoria del processo, più del precedente rispetto alla riforma del 1989». Ricordando il pensiero di Paolo Ferrua, Franco Cordero, Glauco Giostra la docente ha sostenuto che per i reati di mafia «è consentito un doppio binario ma solo nelle indagini non durante il processo penale». Cordero – ha ricordato la prof – «disse che il processo penale non c’era più perché bisognava rispondere alle esigenze della nazione» e ha riaffermato «ben vengano la DDA, la Procura nazionale antimafia, i tempi raddoppiati per le investigazioni di mafia e terrorismo» ma «quando si arriva al processo le garanzie devono essere le stesse per il ladro di macchine e per il mafioso. Il processo deve essere neutro, non deve ricercare né vendetta, né una verità storica, ma solo quella giudiziaria».

Per Chinnici «non possiamo affidarci ad un solo pentito. Ben vengano i collaboratori di giustizia ma per le indagini». E sempre citando Cordero: «Trovare due dichiaranti che dicono la stessa cosa è troppo facile, difficile è trovare la prova di altra natura». Per fortuna, conclude la professoressa, «con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione arriviamo al giusto processo. Si dice che nessuno può essere condannato se non esaminato da un giudice terzo e imparziale».

La pietra dello scandalo che ha portato il dibattito all’attenzione di Repubblica è stata l’espressione di Chinnici per cui il Maxi processo del 1986-1987 è stato un «obbrobrio» e come gli altri maxi processi «eversivo». Quando arriva il suo turno, l’ex membro del Csm Di Matteo controbatte alla docente: «Nei processi di mafia non c'è stata mai alcuna violazione dei diritti di difesa, lo dicono le tante assoluzioni che pure sono arrivate. È inaccettabile che uno dei pilastri della lotta alla mafia quale fu il maxiprocesso venga definito un obbrobrio. Un insulto alla memoria di Falcone e Borsellino, che avevano il culto delle regole dello stato di diritto». E sul concetto di eversivo ha aggiunto: «Quei congegni eversivi del sistema hanno consentito non solo il maxiprocesso, ma anche altri processi importantissimi. Ritengo queste parole inopportune, anche per l'estremo sacrificio della vita costato a tanti valorosi servitori dello Stato».

Quello che manca nel pezzo di Repubblica è la spiegazione che ha dato la professoressa del suo pensiero: «Quando dico che un maxi processo è eversivo intendo dire che lo è, come costrutto giuridico, rispetto al sistema accusatorio. La responsabilità penale è personale, il processo si deve tarare sul singolo, non su centinaia di imputati. Fino a prova contraria ognuno è presunto innocente». E poi amareggiata dalla risposta di Di Matteo e della platea a suo sostegno ha detto: «Non capisco perché questa reazione, quando dico queste cose ai miei studenti ci capiamo».

Quello espresso dalla professoressa è un concetto che avevano già affrontato su questo giornale attraverso un dibattito ampio. Lo aveva iniziato Giorgio Spangher che evidenziò come durante gli ultimi decenni il rito accusatorio sia stato snaturato, abbia perso la sua essenza. Poi Giovanni Fiandaca: «La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale». Infine Alberto Cisterna: «L’ortodossia e il conformismo culturale sono, al momento, la minaccia più grave nel contrasto ai fenomeni criminali organizzati; la dilatazione del doppio binario (pena/ misure di prevenzione) verso fattispecie sideralmente lontane dalla mafia ( persino lo stalking), non rappresenta la dimostrazione dell’espansione inevitabile di uno strumentario ritenuto efficiente, quanto la prova della preoccupante incapacità di procedere a elaborazioni alternative, alla costruzione di modelli di investigazione che sappiano davvero leggere il moderno poliformismo della minaccia criminale per poterlo intercettare in modo non velleitario».